Laboratorio sull’archivio storico comunale
§1 Laboratorio sull’archivio storico comunale – Contro l’accattivante: breve introduzione polemica
L’importante è che sia accattivante: sembra essere questa l’enunciazione programmatica della didattica più à la page di questi ultimi anni, che potrebbe diventare, antifrasticamente, anche il titolo di un pamphlet polemico di qualche collega che volesse rappresentarsi refrattario a queste nuove tendenze.
Questa slogan deve essermi balenato alla mente anche un paio d’anni fa, quando ho deciso di condividere con una classe terza media il percorso di un laboratorio sull’archivio storico comunale di Carbonera. Ricordo infatti di aver pensato ad un laboratorio di ricerca archivistica in aperta antitesi alla didattica dell’accattivante, i cui esiti corrivi mi sembrava fossero già pienamente dispiegati, anche in virtù del ricorso, necessario quanto improvvisato, alla didattica a distanza: l’enfasi sul mezzo che veicola la conoscenza anziché sulle abilità che i ragazzi dovrebbero sviluppare; la difficoltà di produrre reali stratificazioni di conoscenze, ostacolata dalla continua rincorsa, spesso non meditata, alle novità didattiche alla moda; la strutturazione di attività “a spot”, e quindi in assenza di significative riprese e consolidamenti nel corso del tempo; il porre l’accento su un messaggio – spesso stereotipato – anziché sul processo, e quindi su un’idea di complessità che si va producendo per gradi e continui approfondimenti; lo spreco di tempo (e non la sua perdita, che è preziosissima, come dirò tra poco) dovuto all’utilizzo sistematico di pc, tablet o smartphone per la ricerca di informazioni spesso irrelate; la tendenza all’accentramento dell’attenzione sulla figura del docente anziché sulla sua natura di artigiano che padroneggia una tecnica, facilitatore degli apprendimenti o testimone di un sapere rispetto al quale è necessariamente decentrato; infine, l’estrema prossimità tra stimolo e risposta che caratterizza e rafforza dinamiche di motivazione estrinseca all’apprendimento, per cui anche ad un atto educativo deve corrispondere un feedback immediato (tanto spesso da essere meramente numerico), anziché una riflessione che valuta progressi e passi indietro in una visione complessiva e formativa che matura in tempi necessariamente più lunghi. Com’è evidente, questo campionario potrebbe essere ulteriormente arricchito sulla base delle diverse più diverse personali.
Mentre percorrevo a piedi la strada dal municipio di Carbonera all’archivio, immaginavo uno scenario esattamente antitetico rispetto a quello appena delineato: mi rappresentavo infatti un laboratorio sull’archivio storico comunale con caratteristiche di immersività1, in cui i ragazzi potessero confrontarsi a mani nude con i materiali documentari, con la struttura topografica e materiale dell’archivio stesso, in un vero e proprio corpo a corpo, il meno mediato possibile dall’insegnante.2 E ciò anche in virtù del fatto particolare che, nel nostro caso, l’archivio presenta una continuità logistica con l’istituto, trovandosi sotto la palestra della scuola media. Immaginare quindi i ragazzi alle prese con un faldone di carte eterogenee risalenti alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, mi sembrava l’ipotesi meno accattivante, nel senso deteriore del termine, a cui poter sottoporre l’attenzione dei miei alunni.
Com’è facile supporre, rispetto ai miei propositi iniziali di un laboratorio integralmente immersivo sono presto giunto a più miti consigli: ed è esattamente di questo lavoro di mediazione che intendo dare conto in questo breve contributo, che può essere considerato come il resoconto di un viaggio intrapreso nel deliberato tentativo di emancipazione dai cliché dell’accattivante.
La speranza che sento di dichiarare subito a tutte le colleghe e i colleghi che leggeranno queste pagine, è che il racconto di condizioni, mediazioni, rinunce e momenti di scacco che caratterizzano così profondamente il nostro lavoro, mantenga intatte alcune tracce del nudo confronto con i documenti che ha idealmente animato l’esistenza stessa del laboratorio. Approfitto inoltre di questa possibilità di riflessione per farmi accompagnare, in questo breve viaggio, da alcuni autori (romanzieri, registi, filosofi) verso cui mi ritengo debitore per tutto ciò che penso sia fondamentale nel mio lavoro quotidiano.
§2. Laboratorio sull’archivio storico comunale – Condizioni
Nell’articolazione e nella proposta di un laboratorio sull’archivio storico comunale, più che in attività di didattica segmentate secondo modelli più tradizionali, emerge maggiormente la necessità di mettere a fuoco alcune condizioni di lavoro, relative non soltanto ad un orizzonte pragmatico (cosa fa il docente, cosa fanno gli alunni) ma anche al ruolo dell’insegnante nel processo di apprendimento-insegnamento.
§2.1 Laboratorio sull’archivio storico comunale – Camminare qualche passo avanti
Nell’epilogo di Non è un paese per vecchi dello scrittore statunitense Cormac McCarthy, il protagonista del romanzo, lo sceriffo Ed Bell, racconta alla moglie due sogni in cui gli era apparso suo padre, morto diversi decenni prima. Rievocando il secondo sogno, Bell racconta di suo padre che, in una notte buia e fredda, lo affianca e lo supera in sella al proprio cavallo, reggendo un corno in cui brilla la luce tremula di una fiamma: il padre, si legge nelle parole di Bell, “era avvolto in una coperta e teneva la testa bassa […] e nel sogno sapevo che stava andando avanti per accendere un fuoco da qualche parte in mezzo a tutto quel buio e quel freddo, che quando ci sarei arrivato l’avrei trovato ad aspettarmi”.3 I padri di McCarthy – e non importa se siano vivi, morti o fantasmatici, tanto sono scorciati in un potentissimo chiaroscuro che li restituisce alla loro dimensione archetipica – spesso non hanno nemmeno un nome. Parlano poco, e non di rado si riducono a corpi che si muovono in una natura indifferente e crudele, di cui studiano i segni nel tentativo di un addomesticamento mai definitivo.4 Incapaci di ogni contemplazione dei paesaggi che McCarthy descrive, i padri li attraversano senza quasi vederli, perché costantemente occupati a scrutare l’orizzonte da dove potrebbe giungere la salvezza oppure la morte. Per questo i padri camminano sempre qualche passo avanti ai propri figli, calpestando una strada che prima non esisteva e che invitano a percorrere, raccogliendo segni da interpretare nel rapporto con un mondo nella sua essenza inaccessibile.
Come accade allo sceriffo Bell nel sogno appena citato, l’immagine del padre si definisce più rispetto ad un accadere da cui i padri stessi non possono essere distinti (siano essi attori o testimoni) che ad una precisa fisionomia, fisica o psicologica. Questo legame inscindibile tra le figure paterne e gli accadimenti in cui vengono imbrigliati emerge in modo esemplare in un’altra figura tratteggiata da McCarthy nel romanzo Oltre il confine, secondo capitolo della cosiddetta “Trilogia della frontiera”.5 In una contea a sud del Nuovo Messico, un cow boy insieme ai due figli si mette sulle tracce di una lupa che, sconfinando da sud, compie razzie di bestiame. Una mattina, all’alba, il padre e i figli si mettono in viaggio con l’obiettivo di disseminare di tagliole un valico montuoso per catturare l’animale. La descrizione degli atti con cui il padre sotterra una trappola è talmente precisa ed accurata da emanciparsi sia da una finalità narrativa che descrittiva, per arrogarsi il compito di incarnare una modalità di relazione tra il soggetto e il mondo: la sua natura più propriamente regolativa descrive a tutti gli effetti una tecnica (intesa nel suo senso etimologico, quello della téchne greca e dell’ars latina) attraverso la quale gli uomini pongono in essere e consolidano abitudini e comportamenti, e in questo modo, mostrandoli concretamente in atto, contribuiscono alla loro trasmissione.6 E non è quindi un caso che, subito dopo, McCarthy puntualmente chiarisca il valore semantico assunto da questa operazione: il padre, “accovacciato nell’ombra irregolare, con il sole alle spalle e la trappola all’altezza degli occhi, in controluce, sembrava stesse mettendo a punto uno strumento più antico, di ben più alta precisione. Un astrolabio o forse un sestante. Sembrava intento a definire la propria posizione nel mondo. Intendo a definire con un arco o una corda lo spazio tra il proprio essere e il mondo.”7
Ma non è tutto. Al ritorno da una di queste spedizioni, il padre e i figli stanno cavalcando, ancora esposti al gelo dell’altura. Così McCarthy riporta un breve dialogo tra il figlio minore e il padre: “Boyd in sella tremava e aveva le labbra violacee. Il padre lo affiancò, si tolse la giacca e gliela passò. Non ho freddo, disse Boyd. Non ti ho chiesto se hai freddo. Mettitela”.8 Camminare un passo avanti non significa soltanto padroneggiare una tecnica per poterla trasmettere o per consolidarla in un comportamento: significa anche proteggere. In questo caso le parole del padre, riportate senza segni di punteggiatura o indicazioni prosodiche di matrice teatrale su tono e intonazione della voce dei personaggi, possono essere lette e interpretate con sfumature diverse di autoritarismo: oltre a ciò, mi sembra tuttavia che emerga in modo chiaro e netto l’accettazione, da parte del padre, della propria responsabilità di protezione nei confronti del figlio, vista come un dato che presenta la stessa materialità della natura in cui i personaggi si muovono. Responsabilità della protezione che non ha bisogno di spiegazioni astratte o argomentazioni complesse: il proteggere si attua prima di tutto attraverso un corpo, delle mani e dei gesti, o grazie da una voce che costituisce in qualche modo un prolungamento acustico e sonoro di questa dimensione organica e corporea, e non soltanto come veicolo di una verbosità astratta e disincarnata.
A mio avviso questi passaggi tratti dai romanzi di McCarthy possono gettare alcuni scorci interpretativi su svariate questioni che riguardano il nostro lavoro, restituendole depurate dalle contingenze con cui si presentano nella nostra quotidianità. Innanzitutto, camminare un passo avanti, per noi insegnanti, significa possedere e trasmettere le tecniche (metaforicamente il “fuoco” prometeico che ricorre così spesso nei romanzi dello scrittore americano), riconoscendo in esse un valore che va oltre la mera prestazione scolastica. Pur con tutte le inevitabili e necessarie mediazioni didattiche, padroneggiare le tecniche e mostrarle ai ragazzi mentre le stiamo mettendo in atto davanti ai loro occhi costituisce una condizione essenziale per l’apprendimento: se negli ultimi anni si è enfatizzata – e con ottime ragioni – la figura dell’insegnante-facilitatore nei processi di autoapprendimento, l’esercizio condiviso e guidato dall’insegnante delle tecniche relative alle abilità di base (come lettura, esposizione orale, scrittura, comprensione del testo e gerarchizzazione delle informazioni) su cui lavoriamo quotidianamente con i ragazzi è sicuramente decisiva e non eludibile, e si rivela fondamentale per consolidare abitudini e comportamenti. In secondo luogo, camminare un passo avanti significa inevitabilmente celarsi allo sguardo degli alunni, come accade al padre dello sceriffo Bell, che dà le spalle al proprio figlio, assumendo così i tratti di una figura archetipica. A mio avviso, anche in ambito educativo, si può ravvisare la necessità di una piena assunzione del proprio ruolo da parte degli insegnanti, evitando così i problemi generati da scelte ad essa opposte, come ad esempio un’abdicazione forzata (causata da difficoltà ambientali) o persino da una deliberata rinuncia: la conseguente confusione di ruoli che deriva da queste dinamiche potrebbe portare ad un ventaglio di modalità di relazione educativa in cui forme diversificate di indulgenza, di disinteresse oppure anche di accentramento personalistico (quando non di deliberato esibizionismo), per quanto possano presentarsi come “comode” vie d’uscita dalla fatica del sostenere il ruolo educativo, potrebbero risultare dannose e controproducenti. Infine, camminare un passo avanti significa anche saper assumersi la responsabilità della protezione, che avviene prima di tutto attraverso atti rispetto ai quali la parola è subordinata, oppure attraverso richieste non negoziabili nel percorso di osservazione, comprensione e assimilazione delle tecniche. Ciò non significa che l’insegnante non debba giustificare le ragioni delle proprie scelte didattiche, anzi: ciascuno di noi deve sapere in ogni momento rendere conto di una scelta, soprattutto ai propri ragazzi. Tuttavia, è fondamentale che la giustificazione didattica che offriamo loro non eviti un confronto aperto, chiaro e non compromissorio e, quando è necessario, anche un certo spessore dialettico in cui stanno di fronte all’altra posizioni non necessariamente mediabili.
§2.2 Laboratorio sull’archivio storico comunale – Perdere tempo
La seconda condizione è quella di imporsi la necessità di perdere tempo.
Ho già fatto cenno nell’introduzione ad uno dei sensi deteriori del perdere tempo, che negli ultimi anni, anche grazie anche ad alcuni esiti deleteri dell’esperienza della didattica a distanza, ha fatto breccia nella quotidianità di alunni e docenti: si perde tempo per accendere un pc, per recuperare un documento che potrebbe essere stato archiviato in una, due o tre piattaforme diverse; si perde tempo nel dover svolgere o consegnare online un compito assegnato; molto spesso i ragazzi perdono tempo nella ricerca di informazioni rincorrendole in ambienti virtuali che non sono in grado di consultare e gestire in tempi ragionevoli; infine, l’ipertrofia di attività da svolgere online porta inevitabilmente a dinamiche di iperconnessione, con tutti i rischi ad essa correlati.
Tuttavia, perdere tempo potrebbe non suggerire soltanto scorci di alienazione tecnologica e comunicativa, ma anche costituire la condizione stessa di possibilità di un apprendimento non orientato alla prestazione ma all’esplorazione della realtà nella sua complessità e alla ridefinizione progressiva del rapporto tra il soggetto che apprende e il mondo che lo circonda. Ad esempio, possiamo facilmente osservare cosa significhi perdere tempo nelle attività dei bambini nella prima infanzia: il gioco reiterato di spostamento e ricollocazione di semplici oggetti su un piano oppure uno sull’altro; la ripetizione, apparentemente soltanto esteriore, di gesti e movimenti che in realtà producono e rinforzano schemi di interazione con il mondo che li circonda; la richiesta di rileggere gli stessi libri o le stesse storie, o rivedere le stesse immagini, per consolidare il proprio vissuto emozionale, e così via. In questi casi, senza finalità o motivazioni estrinseche derivanti da gratificazioni o sanzioni, perdere tempo diventa una delle condizioni di un reale apprendimento.
Il nesso tra tempo perso e apprendimento è chiarito in modo esemplare dal filosofo francese Gilles Deleuze nel primo capitolo di Marcel Proust e i segni,9 in cui la Ricerca del tempo perduto viene interpretata non tanto come un’analisi fenomenologica della memoria (dei suoi successi o dei suoi momenti di inciampo), quanto come modello di una ricerca della verità in cui l’apprendimento e modo in cui avviene hanno un ruolo centrale. Deleuze osserva: “Da un lato, la Ricerca non è semplicemente uno sforzo per ricordare, un’esplorazione della memoria: il termine «ricerca» va preso nel suo senso più forte, come nell’espressione «ricerca della verità». D’altra parte, il tempo perduto non è semplicemente il tempo passato; è anche il tempo che si perde come nell’espressione «perdere tempo»”. Qualche riga dopo, Deleuze chiarisce come la dimensione della temporalità insita in ogni impresa di conoscenza strutturi profondamente il rapporto tra il soggetto che apprende e il mondo che interroga: nonostante infatti il saggio su Proust riguardi l’apprentisage di un letterato, Deleuze, per illustrare il nesso inscindibile che lega ricerca, temporalità e segno, ricorre all’ambito delle tecniche e delle arti, evocando persino la dimensione della “vocazione”, che ha un ruolo così importante anche nei percorsi di orientamento che proponiamo nell’arco del triennio. Scrive infatti Deleuze: “Apprendere è cosa che concerne essenzialmente i segni. Questi sono appunto oggetto di un apprendimento temporale, non di un sapere astratto. Apprendere significa anzitutto considerare una materia, un oggetto, un essere, come se emettessero segni da decifrare, da interpretare. […] Non si diventa falegnami se non facendosi sensibili ai segni del legno, o medici, a quelli della malattia. La vocazione è sempre predestinazione in rapporto ai segni. Tutto ciò che ci fa apprendere qualcosa emette segni, ogni atto dell’apprendere è un’interpretazione di segni […].”
In quale modo a scuola è possibile proporre questa esperienza del perdere tempo non come una mera evasione da una pratica avvertita come logora, ma ritrovandola come condizione stessa dell’apprendimento (degli alunni, ma anche nostro)? Tra le varie riflessioni che mi sembra di poter suggerire, in relazione al progetto che tra poco illustrerò, accenno a qualche ipotesi di approccio alla nostra professione che potrebbe orientare anche qualche scelta pratica. Innanzitutto anche noi insegnanti per primi dovremmo accettare di perdere tempo, rinunciando così ad un passo (avanti?) nel cosiddetto “programma” (che non esiste più in alcuna linea guida, ma che – anche quando viene sostituito dal concetto di “programmazione” – si sente spesso citare come misura di ogni scelta didattica) o ad esempio evitando di suddividere il numero di pagine del libro di testo per il numero di lezioni annuali, in modo da giustificare a genitori poco informati l’esaurimento degli argomenti previsti dal manuale in adozione. Esistono molte alternative alla didattica del programma, peraltro ormai note: l’integrazione della troppo vituperata, e a mio avviso ancora fondamentale, lezione frontale con attività pratiche e cooperative; la riduzione dell’ottica prestazionale a favore del monitoraggio dei processi attraverso la loro condivisione collettiva; la riduzione quantitativa (sia nella durata che nella consistenza) dei momenti di verifica e valutazione per la proposta di attività di apprendimento tra pari; per quanto riguarda le materie letterarie, lasciare spazio alla lettura individuale, articolare momenti di confronto con la scrittura senza imbrigliarli nel bavaglio di tempi rigidi imposti dal classico tema; privilegiare l’apprendimento per scoperta e un approccio pratico di conoscenza.
§2.3 Laboratorio sull’archivio storico comunale – Fare la differenza
Deleuze in Proust e i segni è molto chiaro anche nell’affermare, relativamente alla ricerca e all’apprendimento nel tempo attraverso i segni, anche la possibilità dello scacco e dell’insuccesso: anche noi insegnanti dobbiamo accettare la possibilità concreta del fallimento in ambito educativo come dimensione non eliminabile del nostro lavoro. Sto parlando innanzitutto del fallimento dei ragazzi nel loro percorso scolastico più o meno futuro, o persino nelle loro scelte di vita e, come conseguenza, anche del senso di fallimento che proviamo in prima persona nel momento in cui le nostre aspettative – sia rispetto ai ragazzi che all’immagine di noi stessi come professionisti – si rivelano disattese.
Proprio il senso dell’insuccesso ci porta a confrontarci con una domanda in modo diretto: cosa fa la differenza nel nostro lavoro? Probabilmente abbiamo rinunciato ad elaborare una risposta precisa, preferendo delegare a ciò che c’è fuori di noi e del nostro controllo il compito di giustificare i nostri (a volte anche soltanto presunti) insuccessi. L’attivazione di meccanismi di attribuzione causale esterna tende a preservare noi stessi da una delle poche realtà davvero oggettive del nostro lavoro, e cioè il fatto che esso, forse come pochi altri, è costitutivamente esposto al rischio del fallimento. Ciò in ragione del fatto che un sistema complesso come quello scolastico si pone all’incrocio di un insieme eterogeneo di forze esterne ad esso, peraltro in rapidissima trasformazione negli ultimi anni, che sembrano quasi ridimensionare la figura del docente a piccolo satellite periferico del sistema: penso in primis al ruolo educativo delle famiglie, all’evoluzione tecnologica e comunicativa, al ruolo del decisore politico con le sue ipotesi di riforma e le sue scelte organizzative, alla rilevanza dell’istruzione attribuita alla scuola dagli organi di informazione e dalla società civile. Di fronte a questo panorama così complesso, disarticolato e spesso non comunicante (verso il quale può dirigersi l’attribuzione causale esterna da parte del docente, e che sul versante soggettivo può configurarsi come un senso di frustrazione, impotenza e inadeguatezza), ritornare alla domanda “che cosa fa la differenza?” può diventare in qualche modo decisivo, poiché potrebbe contribuire a rimettere la professionalità del docente ad un ruolo meno periferico della galassia-scuola e, soprattutto, a riconfigurare l’immagine che il docente ha di sé, al di fuori della relazione con le aspettative sociali.10
Anche su questo tema il pensiero di Gilles Deleuze a mio avviso offre degli spunti interessanti, soprattutto nell’introduzione e nel primo capitolo di Differenza e ripetizione.11 Per Deleuze la differenza non è qualcosa che viene semplicemente colto come il risultato di un confronto tra due o più enti nella loro presunta oggettività, ma come l’esito di un atto del pensiero che “fa la differenza” cogliendo una determinazione dentro l’“abisso indifferenziato, […] il bianco niente” in cui fluttuano “determinazioni slegate, come membra sparse, teste decollate, braccia prive di spalle, occhi senza fronte”: è ciò che Deleuze definisce in altri scritti successivi con il concetto di caos che, diversamente da come viene interpretato abitualmente, non consiste in un disordine indifferenziato, ma un complesso di determinazioni slegate tra loro prive di relazione l’una con l’altra. Rispetto al caos così configurato, secondo Deleuze, il pensiero, più che riflettere, osservare e constatare, agisce, tracciando un linea o posizionando su uno stesso piano determinazioni prima sfuggenti. La differenza è quindi, ancora una volta, l’esito di un atto concreto del pensiero che dà ordine: tuttavia l’atto del pensare non necessariamente è limitato alla sola filosofia speculativa, in quanto anche la scienza, la critica letteraria, le arti plastiche e pittoriche, il teatro, il cinema e la psicanalisi presentano questa stessa aspirazione. Ancora una volta la domanda sul modo in cui si può “fare la differenza” trova una possibile risposta nel consolidamento di una tecnica – sempre intesa nel suo senso etimologico –, che agisce su un campo di forze complesse (dalle dinamiche interne all’aula a quelle istituzionali e territoriali, fino a quelle – molto sottovalutate – interne al docente stesso) che tenta di ristrutturare attraverso un lavoro di mediazione e affinamento progressivo dei propri strumenti di lavoro.
Se pensare è quindi “fare la differenza” nel senso di cogliere la determinazione all’interno del caos, uno degli scopi dell’attività educativa potrebbe essere proprio quello di fare in modo che i ragazzi, anziché imparare astrattamente, vivano concretamente e quotidianamente l’esperienza di che cosa significa realmente “fare la differenza”. In questo senso la mediazione didattica operata dal docente ha un ruolo fondamentale, nel determinare e predisporre un territorio di esplorazione in cui le incertezze e le difficoltà non siano insormontabili ma implichino invece delle sfide riconosciute come significative da parte dei ragazzi.
§3. Laboratorio sull’archivio storico comunale – Mediazioni
A questo punto cercherò di entrare nel merito della proposta laboratoriale di ricerca d’archivio, con l’auspicio di rendere evidenti gli snodi teorici e le conseguenze pragmatiche di quanto affermato nei paragrafi precedenti.
§3.1 Laboratorio sull’archivio storico comunale – Tracciare un perimetro
La prima mediazione che il docente deve mettere in atto è abbastanza ovvia: perdere tempo in archivio, camminando qualche passo avanti rispetto alla classe, e simulando l’esperienza immersiva che intende declinare per i ragazzi, in modo da conservarne l’approccio originario ed evitare improvvisazioni che potrebbero portare ad un disorientamento al momento di affrontare il materiale documentario. Per raggiungere questo obiettivo è innanzitutto necessario perimetrare il campo di indagine: in questa fase, ci si può limitare anche all’individuazione di un mero criterio cronologico che, diversamente da un criterio tematico, preserva al meglio la caratteristica di immersività del lavoro in archivio. Nel caso del laboratorio sull’archivio storico comunale, la determinazione dei termini a quo e ad quem della ricerca è stata inoltre stabilita da ragioni di carattere pragmatico, imposte dalla collocazione delle attività tra il primo e il secondo quadrimestre: in previsione di avviare il laboratorio a gennaio e concluderlo in aprile (per un totale di dodici incontri complessivi da due ore ciascuno), è stato infatti necessario approcciare i materiali d’archivio dall’Unità d’Italia fino al Ventennio Fascista, in modo tale che, al momento della consultazione dei materiali, fossero già stati affrontati in modo approfondito in orario curricolare.
Alla determinazione del campo d’indagine possono evidentemente concorrere anche indici e apparati preesistenti, redatti nel corso del riordino dell’archivio, che possano indirizzare in modo più sicuro il reperimento di fonti di interesse, oppure anche i risultati di precedenti sopralluoghi, come accaduto nel nostro caso: sulla base delle attività già svolte con la collega Maestra Luisa Bordin (confluite, in anni scolastici diversi, nella realizzazione di un laboratorio in orario extracurricolare dedicato alla storia della scuola e successivamente nello sviluppo di un PON sul patrimonio artistico e culturale), ho deciso di orientare l’attenzione, quasi a colpo sicuro, ai documenti contenuti nei faldoni “Leva e truppa” e “Scuola e istruzione”, e soprattutto in quelli contrassegnati con la denominazione di “Corrispondenza diversa”, suddivisi per anno a partire dall’Unità d’Italia, dove sono stati archiviati nel corso del tempo tutti i materiali non immediatamente classificabili sotto le altre categorie previste dal sistema di indicizzazione degli archivi comunali.
Immediatamente successivo alla fase appena descritta è lo spoglio dei faldoni e la ricerca di materiali accessibili alla ricerca e soprattutto ai destinatari del laboratorio sull’archivio storico comunale: si tratta della fase cruciale di tutto il lavoro, quantificabile in svariate ore di tempo perduto in archivio. Anche in questo caso, molti elementi contingenti indirizzano la lettura dei faldoni: poiché i materiali saranno sottoposti alla lettura diretta degli alunni, ho dato prioritariamente importanza a documenti dattiloscritti oppure manoscritti in corsivo facilmente leggibile; nel caso di minute o documenti meno chiari, mi sono accertato che fossero particolarmente rilevanti in previsione dell’analisi storica condotta in orario curricolare. Questa fase esplorativa dell’archivio è stata appuntata su un quaderno in cui, faldone per faldone, ho annotato progressivamente i materiali più interessanti che presentassero le seguenti caratteristiche: solidi collegamenti con lo studio manualistico, al quale potrebbe essere necessario ritornare per inquadrare la fonte; in secondo luogo, caratteristiche di leggibilità autonoma da parte degli alunni ed infine la possibilità di individuare ancoraggi per eventuali approfondimenti.
§3.2 Laboratorio sull’archivio storico comunale – Gli strumenti dell’artigiano
Il secondo livello di mediazione con cui mi sono confrontato è la messa a punto degli strumenti di lavoro condivisi con la classe del laboratorio. Diversamente da quanto accade nella didattica dell’accattivante, per un laboratorio sulle fonti archivistiche non sono necessari strumenti particolarmente innovativi o complessi da utilizzare: mi soffermerò brevemente su ciascuno di essi, esponendoli in ordine di apparizione, nonostante il loro impiego possa evidentemente essere contemporaneo a diversi momenti del percorso.
Partirei quindi dal ruolo fondamentale assunto dal (1) manuale di Storia in adozione e dal (2) quaderno di Storia, che costituiscono per i ragazzi dei punti di ancoraggio contenenti conoscenze già acquisite di essenziale importanza nell’inquadramento e nella contestualizzazione dei documenti. In controtendenza a quanto si sente affermare nella vulgata della didattica dell’accattivante, il lavoro su (e con) manuale e quaderno costituisce ancora una base imprescindibile per ogni altro lavoro che si intenda costruire in forma laboratoriale, soprattutto in una classe terza media, quando gli alunni dovrebbero già essere in grado di orientarsi con sicurezza nella comprensione del testo espositivo, nell’individuazione della gerarchia dei concetti e delle informazioni più importanti e nella costruzione autonoma di mediatori per lo studio (cronologie, schemi per punti elenco, schemi di causa ed effetto, tabelle di confronto, schede di Cornell e quanto già sperimentato sotto la guida dell’insegnante) che confluiranno nel quaderno di Storia, che, se ben organizzato e conservato, costituirà la mappa del territorio concettuale che i ragazzi potranno in qualsiasi momento ripercorrere. La fonte storica infatti diventerà a tutti gli effetti un segno significativo soltanto se potrà essere ancorata a qualcosa di già noto per i ragazzi.
Il secondo strumento che ho predisposto sono stati dei (3) faldoni per documenti vuoti, acquistati allo scopo che ciascuno di essi contenga al suo interno un singolo segmento del faldone selezionato dell’archivio storico, che in questo modo viene suddiviso in fascicoli più agili e di più facile consultazione. Per il confronto con i faldoni avvenuto nei locali dell’archivio storico, i ragazzi si sono dotati di (4) guanti in lattice, in modo da preservare l’integrità dei materiali presi in esame.
Durante la consultazione dei documenti (oppure in un momento immediatamente successivo), i ragazzi hanno compilato una (5) scheda preliminare di analisi della fonte storica predisposta dall’insegnante, nel caso si siano imbattuti in documenti ritenuti più interessanti rispetto ad altri.12 In questa fase è necessario lasciare che i ragazzi si confrontino in modo più libero possibile con il materiale documentario: per questo motivo il docente dovrà astenersi nella maggior misura possibile dallo “scremare” le fonti scelte dai ragazzi, anche quando esse siano poco significative dal punto di vista strettamente storiografico. La loro rilevanza può essere vagliata in un momento successivo, come ad esempio nel corso di una riflessione collettiva sui documenti: quelli individuati come i più interessanti sono stati riprodotti con uno (6) scanner, per poter essere più facilmente condivisi o rielaborati.
Nella prospettiva di realizzare degli artefatti del lavoro sull’archivio, siamo ricorsi alla stesura dei testi di commento e analisi utilizzando (7) l’aula di informatica e le applicazioni della (8) Gsuite di istituto (in particolar modo Classroom, Drive, Documenti e Presentazioni), in modo che i file di lavoro potessero essere facilmente condivisi, mentre per la realizzazione dei manifesti è stato utilizzato il (9) programma gratuito OpenDraw.
In laboratori di questo tipo sono molti importanti a mio avviso il monitoraggio dei processi, la raccolta e la condivisione delle idee in itinere, che è stata svolta collettivamente utilizzando un (10) pc collegato ad un proiettore o ad una lavagna multimediale, in modo che tutta la classe potesse seguire lo sviluppo del progetto.
§3.3 Laboratorio sull’archivio storico comunale – Solo burocrazia? Forse no.
A volte la stesura di un progetto da presentare al Collegio Docenti non è un semplice adempimento burocratico, poiché permette di definire anticipatamente gli scopi del laboratorio sull’archivio storico comunale, le fasi di lavoro, le modalità di verifica o valutazione, permettendo così al docente di circostanziare in modo più preciso, per quanto sempre provvisorio, problemi da risolvere, competenze da potenziare e tecniche da affinare. E soprattutto permette di poter valutare in itinere possibili variazioni o deviazioni dal progetto in corso d’opera. Per questo motivo, ho deciso di riportare qui fedelmente quanto appuntato a suo tempo nella scheda del progetto.
“Solo chi è ben preparato ha l’opportunità di improvvisare”: così scriveva il grande regista svedese Ingmar Bergman in un illuminante saggio dedicato alle arti della finzione, ed in particolare al teatro al cinema. Pur non essendo un attore o un musicista, anche l’artigiano esperto (artista?) dell’insegnamento può giustificatamente arrogarsi questo diritto.
La capacità di improvvisazione più sottile e produttiva è sicuramente quella che permette al docente di cogliere, nella quotidianità della relazione con la classe, segni che possono ridefinire nell’immediato metodi e strumenti dell’ora di lezione, oppure provocare deviazioni rese necessarie da bisogni emotivi o formativi, dell’intera classe come di un singolo alunno. Penso che ciascuno di noi abbia sperimentato l’efficacia di saper cogliere una deviazione del progetto di lezione predefinito, al fine di gestire un momento di analisi collettiva di qualche problema, oppure rimodulando le attività e gli obiettivi sulla base della contingenza del momento e dei feedback verbali o non verbali offerti dalla classe.
Com’è facile intuire, rispetto alla formalizzazione progettuale del nostro laboratorio sull’archivio storico comunale si sono resi necessari diversi aggiustamenti in corso d’opera. Quello sicuramente più significativo è stato lo slittamento dall’attività di indagine immersiva dei faldoni d’archivio all’analisi di una selezione più ristretta di materiali scelti e riprodotti dall’insegnante.13 Il passaggio tra queste due diverse modalità di ricostruzione dell’archivio per finalità didattiche è avvenuto dopo la segmentazione e l’analisi dei faldoni di corrispondenza diversa tra il 1900 e il 1909 e del faldone sulla Leva e Truppa 15-18, ed ha quindi interessato la fase del Primo Dopoguerra e del Ventennio Fascista. Le ragioni di questa rimodulazione del percorso è stata motivata dal fatto che i ragazzi, nella prima parte del laboratorio, avevano dedicato diverse ore all’indagine immersiva, e quindi erano sufficientemente venuti a contatto con i materiali documentari, per cui ho ritenuto di passare ad una fase di lavoro maggiormente finalizzata all’analisi delle fonti.
Un secondo momento di mediazione significativo si è posto nel momento in cui, una volta scelte le fonti ritenute interessanti per l’analisi, è stato necessario indicare ai ragazzi percorsi di approfondimento specifici per ciascun documento, da svolgere singolarmente o in piccolo gruppo. Molto spesso si è rivelato sufficiente un ritorno ai materiali presenti nel manuale e nel quaderno di Storia, mentre in altri casi ho dovuto riprodurre dei materiali o indicare la loro presenza in rete ai ragazzi: questo momento è piuttosto delicato, poiché è necessario individuare dei testi o dei video accessibili, tenendo conto anche delle capacità di letture e comprensione dei singoli alunni. Nell’ottica di un laboratorio condiviso a livello dipartimentale e quindi scalabile per più classi, anche in anni scolastici diversi, questo lavoro può essere svolto collegialmente dai docenti, che individuano anticipatamente degli apparati utili all’interpretazione e all’analisi delle fonti: nel mio caso, il lavoro è stato svolto in itinere.
Altre deviazioni di minore importanza hanno coinvolto piccoli gruppi di alunni, a cui è stato richiesto, in momenti dedicati, di ragionare collettivamente su altri aspetti del laboratorio, come ad esempio la struttura e i colori dei manifesti e la preparazione della presentazione tramite l’apposito programma: in questi casi, a seconda delle necessità, sono stati creati dei micro-compiti specifici, stabiliti anche sulla base degli interessi degli alunni e delle loro scelte rispetto alla scuola superiore e al percorso di orientamento.
Infine, e con questo passiamo al punto successivo, un livello di mediazione considerevole in cui il mio intervento è stato necessario, è stata la produzione degli artefatti previsti dal progetto.
§3.5 Laboratorio sull’archivio storico comunale – Artefatti
Fin dalla sua elaborazione, il Laboratorio sull’archivio storico comunale ha infatti previsto la realizzazione di una mostra e di una presentazione aperta alla cittadinanza. La scelta di un’articolazione conclusiva di questo tipo è motivata dalla necessità di proporre alla classe destinataria del progetto un compito autentico di rielaborazione ed esposizione orale, utile anche in previsione dell’esame di licenza media.
L’allestimento della mostra e la sua presentazione da parte dei ragazzi ha quindi previsto la creazione dei seguenti artefatti: (1) i manifesti contenenti la scansione, l’analisi delle fonti e altri apparati integrativi, (2) la presentazione da proiettare e (3) l’esposizione dei ragazzi alla cittadinanza.
Quindi il coinvolgimento della classe in questa fase del lavoro è stato guidato dall’insegnante, che nell’azione didattica si è basato sui seguenti criteri: innanzitutto il coinvolgimento di tutti gli allievi, nessuno escluso, nella presentazione del laboratorio sll’archivio storico comunale;14 la riflessione condivisa sulla veste grafica migliore per presentare il lavoro, individuato in manifesti in formato A1, in cui confluiscono scansioni delle fonti, elementi della cronologia e il lavoro testuale di analisi e contestualizzazione, organizzati in un layout scalabile e riutilizzabile; la preparazione di una presentazione tramite Slides di Gsuite for Education, contenente la traccia visiva, segmentata con una parte assegnata a ciascun alunno, di quanto la classe presenterà oralmente al momento della condivisione con la cittadinanza.
§4 Laboratorio sull’archivio storico comunale – Ritrovamenti
Tra i vari ritrovamenti frutto del lavoro di archivio, c’è qualche probabilità che i più sorprendenti o interessanti non siano necessariamente quelli che “parlano” agli alunni. Vale la pena di indicare, almeno rapsodicamente, alcuni di questi documenti.
Poiché fino alla Riforma Gentile l’istruzione doveva essere garantita e organizzata dai Comuni, tra i documenti depositati negli archivi storici si potranno trovare verbali degli esami di scuola elementare (con dati relativi ai promossi e ai bocciati nella poco inclusiva scuola della Legge Casati); i dettati d’esame, da cui si evince come la dignitosa povertà degli indigenti non venisse considerata un’ignominia da nascondere; le tracce per la composizione scritta, in cui veniva richiesto ai ragazzi di raccontare l’esperienza di aiuto ad un parente ammalato oppure ad un bisognoso; le relazioni di fine anno di maestre e maestri di inizio Novecento, che potranno lamentare la mancanza di finestre nell’unica aula a disposizione, la fuga primaverile di bambini che abbandonano la scuola per lavorare nei campi oppure l’alcolismo diffuso nelle famiglie contadine.
Rimanendo nell’ambito della scuola e dell’istruzione, in qualche caso fortunato si potrebbero trovare carteggi tra politica e religione. In uno di questi, un parroco di campagna indirizza una lettera al sindaco per lamentare il fatto che nella scuola pubblica non si impartisse l’insegnamento della religione in modo assiduo, diversamente da quanto avveniva in altri paesi europei, opportunamente citati come esempi di virtù pedagogica. Il clima di un certo positivismo primo novecentesco faceva giungere la propria eco anche nei paesi di campagna più periferici.
Nel faldone “Leva e Truppa 1915-1918” si potrebbero trovare i fascicoli dei soldati morti al fronte, ciascuno contenente i telegrammi e le comunicazioni alla famiglia; se compilati integralmente, i frontespizi di questi fascicoli sono utili per un’indagine quantitativa del numero di morti in rapporto agli abitanti del comune, dell’età e della causa della morte.
Fra la corrispondenza diversa risalente al ventennio fascista, può capitare di leggere una spassosa diatriba in cui il podestà locale lamenta al responsabile della sezione provinciale del partito l’aumento sconsiderato del prezzo di un busto del duce che il comune avrebbe dovuto acquistare. Di diverso tenore e rilevanza storica invece è l’indagine interna sul numero di scapoli presenti nell’amministrazione pubblica, di cui c’è traccia in diverse circolari dattiloscritte, così come, negli anni dell’occupazione tedesca durante la Seconda Guerra Mondiale, le richieste di notizie su cittadini di religione ebraica.
§5 Prospettive
Le questioni che mi sono posto a partire dal percorso svolto con i ragazzi nello scorso anno scolastico sono molteplici, e non coinvolgono soltanto la riproducibilità e la scalabilità del progetto, ma soprattutto l’organizzazione scolastica e didattica nel suo complesso all’interno della quale percorsi di questo tipo potrebbero articolarsi ed essere produttivi.
In questo senso, la domanda cruciale da porsi, a mio avviso, è se, nei contesti scolastici che sono andati consolidandosi in questi ultimi anni, sia possibile una proposta con questi obiettivi e queste caratteristiche. In effetti la virata che si sta compiendo verso modelli didattici che tengono assieme un numero alto di ore curricolari, tutte obbligatorie, e la loro contemporanea compressione in un tempo scuola su cinque giorni settimanali risulta deleteria per la proposta di attività di approfondimento e laboratoriali, rendendole pressoché impraticabili. L’esistenza stessa di questo laboratorio di ricerca archivistica, come si può leggere nel progetto iniziale, era infatti vincolato ad una classe terza media con orario settimanale su sei giorni di frequenza per cinque ore al giorno; nei modelli orari in cui la scansione oraria è di sei ore (o poco meno) al giorno settimanali è del tutto evidente l’impossibilità di una sua proposta.
Qui mi sia concesso confutare gli argomenti di tutti coloro che sostengono come, modulando obiettivi e metodologie didattiche in modo accorto, sia possibile fare una proposta di apprendimento articolata su sei ore al giorno. Se ciò è vero – e penso che lo sia, in una certa misura – è lecito anche chiedersi se, paradossalmente, non sia possibile a questo punto anche esaurire le trenta ore di scuola obbligatorie in quattro o persino in tre giorni. È evidente che tutto si può fare, in un modo o nell’altro: ma vale davvero la pena di non pensare alle distorsioni e ai problemi che questo modello impone ai nostri alunni? È una scuola a misura di adolescente quella che viene proposta e organizzata in questo modo? E, a pensarci bene, quale adulto lavora (e parliamo di lavoro, non di apprendimento) per sei ore di fila al giorno con una pausa di un quarto d’ora e una di cinque minuti?
Forse varrebbe la pena di uscire dall’ambiguità, e di dirci almeno tra noi le cose come stanno, e magari provando ad ipotizzare delle soluzioni conseguenti alla tutela del diritto all’apprendimento inclusivo di tutti i ragazzi, il diritto ad una sana e corretta alimentazione, il diritto ad un stile di vita completo ed equilibrato, a garanzia dei veri protagonisti del nostro lavoro, e cioè ragazze e ragazzi in età evolutiva a cui va garantito quando di meglio sia possibile, e non il frutto di un compresso al ribasso tra gli attori in gioco. Radicalizzando questa dinamica, si rischia invece che le disuguaglianze di matrice economica e conseguentemente sociale potrebbero diventare insostenibili, se la scuola italiana non si pone l’obiettivo di un’inclusione non soltanto teorica, ma anche concreta, a partire da precise scelte di carattere organizzativo.
Per affrontare la complessità del problema anche la linearità di qualche proposta concreta potrebbe presentare dei vantaggi. Eccone alcune. Innanzitutto sarebbe necessario proporre una riduzione sostanziale del numero di ore curricolari obbligatorie (da 30 a 24-25 settimanali), per i motivi già indicati; nelle ore curricolari il focus deve essere centrato sulle materie prioritarie (comprensione del testo, lingue straniere, matematica e informatica); le attività di tipo pratico possono essere collocate in orario extracurricolare pomeridiano, quando la scuola garantirà l’apertura dell’istituzione per le più svariate attività di inclusione e supporto ad alunni e famiglie. All’interno di questo quadro, un laboratorio sull’archivio comunale come quello appena descritto (così come altre svariate attività progettuali) può mettere le ragazze e i ragazzi nella condizione di esplorare un territorio complesso e non contingentato nei tempi e nei modi di questa esplorazione, e quindi di fare esperienza di cosa significhi “fare la differenza”.
Note al testo:
1 Anche il concetto di immersività nel campo della didattica sembra essere stato attratto nell’orbita dell’accattivante. Relativamente a questo punto si veda A. Benassi, Didattica immersiva, in «Bricks», 8, 3, pp. 106-111: “In anni recenti, il termine immersivo è diventato di uso comune. O forse sarebbe più corretto dire che è diventato una parola calda, usata – talvolta abusata – in vari ambiti, compreso quello educational, e spesso associata ad un’altra parola: esperienza. Nella percezione comune, un’esperienza immersiva è un’esperienza simulata in una qualche forma di realtà virtuale, abilitata da particolari tecnologie.” L’articolo è pubblicato in PDF al seguente link: http://www.rivistabricks.it/wp-content/uploads/2018/08/2018_3_18_Benassi.pdf. Come chiarisce Benassi nel suo contributo, la caratteristica dell’immersività non necessariamente presuppone il ricorso alla tecnologia come condizione di possibilità: essa infatti ha come correlato fondamentali l’esperienza e la possibilità di interazione tra soggetto e contesto.
2 Per un contributo agile e nel contempo approfondito sulla didattica attraverso gli archivi, corredato da un apparato bibliografico, si veda I. Mattozzi, Archivi simulati e didattica della ricerca storica: per un sistema formativo integrato tra archivi e scuole, in AA.VV., Archivi locali e insegnamenti storici, Archivio Storico Comune di Modena, Modena, 2001, pp. 11-23.
3 C. McCarthy, Non è un paese per vecchi, Einaudi, Torino 2007, pp. 250-251: “Dopo che è morto ho fatto due sogni su di lui. Il primo non me lo ricordo tanto bene, lo incontravo in città da qualche parte e mi regalava dei soldi e mi pare che li perdevo. […] Attraversavo un passo in mezzo alle montagne. Faceva freddo e a terra c’era la neve, lui mi superava col suo cavallo e andava avanti. Senza dire una parola. Continuava a cavalcare, era avvolto in una coperta e teneva la testa bassa, e quando mi passava davanti mi accorgevo che aveva in mano una fiaccola ricavata da un corno, come usava ai vecchi tempi, e io vedevo il corno alla luce della fiamma. Era del colore della luna. E nel sogno sapevo che stava andando avanti per accendere un fuoco da qualche parte in mezzo a tutto quel buio e a tutto quel freddo, e che quando ci sarei arrivato l’avrei trovato ad aspettarmi. E poi mi sono svegliato.”
4 Anche il romanzo La strada, vincitore del Premio Pulitzer per la narrativa nel 2007, che ha come protagonisti un padre e un figlio senza nome che vagano in uno scenario post-apocalittico, non fa eccezione a questa regola: anzi, il padre di La strada ne è forse l’esempio più didascalico che, proprio per questo motivo, trovo meno interessante dal punto di vista letterario rispetto agli altri romanzi di McCarthy. Sulla figura del padre di La strada si vedano i molteplici contributi dello psicoterapeuta e saggista Massimo Recalcati.
5 C. McCarthy, Oltre il confine in Id., Trilogia della frontiera, Einaudi, Torino 2008.
6 Vale la pena di riportare il passo per intero. Cfr. ivi, p. 315: “Il padre posò la prima trappola sotto il valico, dove sapevano che era passata la lupa. Il ragazzo fermò il cavallo e osservò il padre buttare a terra la pelle di vitello col pelo rivolto verso il basso, scendervi sopra e calare il cesto. Estrasse i guanti di renna e se li infilò, scavò una buca con una paletta, mise dentro il gancio, avvolse intorno la catena e ricoprì la buca. Poi ne scavò altre di forma analoga a quella delle molle della trappola. Mentre scavava mise un po’ di terra nel setaccio, poi posò la paletta e prese dal cesto un paio di morsetti, con i quali abbassò le molle fino ad aprire le ganasce. Sollevò la trappola e osservò l’incavo nella base, allentò un po’ la vite e sistemò il meccanismo di chiusura.” Notevole la nuda indicazione del figlio che osserva il padre mentre compie tutte le operazioni descritte.
7 Ivi, pp. 315-316.
8 Ivi, p. 322.
9 G. Deleuze, Marcel Proust e i segni, Einaudi, Torino 2001.
10 Si vedano in particolare i lavori di Vittorio Lodolo D’Oria, che ha dedicato al delicato tema del burn out degli insegnanti molte pubblicazioni.
11 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997.
12 Un esempio di scheda di analisi è contenuta in A. Fossa, G. Nicoletti, E. Peatini, Laboratori per fare storia. Guida pratica alla metodologia della ricerca storico-didattica, Canova, Treviso 2005, p. 132.
13 Un’ipotesi di lavoro ancora diversa da tenere presente, intermedia tra l’approccio immersivo e l’analisi di documenti selezionati a monte dal docente, consiste nell’allestimento di uno pseudo-archivio, in cui la selezione dei materiali documentari viene affiancata dal mantenimento di fonti meno interessanti, in proporzione possibilmente analoga a quanto contenuto nei faldoni originali. Cfr. I. Mattozzi, op. cit.
14 Questo aspetto viene spesso, ingiustamente, sottovalutato: mi è capitato più volte nella mia esperienza di spettatore, e purtroppo in qualche caso anche di promotore, di assistere o ad organizzare attività di esposizione al pubblico in cui sono stati coinvolti soltanto alcuni alunni, magari i più competenti, trascurando così tutti i partecipanti, anche coloro il cui contributo è stato meno appariscente.
L’importante è che sia accattivante: sembra essere questa l’enunciazione programmatica della didattica più à la page di questi ultimi anni, che potrebbe diventare, antifrasticamente, anche il titolo di un pamphlet polemico di qualche collega che volesse rappresentarsi refrattario a queste nuove tendenze.
Questa slogan deve essermi balenato alla mente anche un paio d’anni fa, quando ho deciso di condividere con una classe terza media il percorso di un laboratorio sull’archivio storico comunale di Carbonera. Ricordo infatti di aver pensato ad un laboratorio di ricerca archivistica in aperta antitesi alla didattica dell’accattivante, i cui esiti corrivi mi sembrava fossero già pienamente dispiegati, anche in virtù del ricorso, necessario quanto improvvisato, alla didattica a distanza: l’enfasi sul mezzo che veicola la conoscenza anziché sulle abilità che i ragazzi dovrebbero sviluppare; la difficoltà di produrre reali stratificazioni di conoscenze, ostacolata dalla continua rincorsa, spesso non meditata, alle novità didattiche alla moda; la strutturazione di attività “a spot”, e quindi in assenza di significative riprese e consolidamenti nel corso del tempo; il porre l’accento su un messaggio – spesso stereotipato – anziché sul processo, e quindi su un’idea di complessità che si va producendo per gradi e continui approfondimenti; lo spreco di tempo (e non la sua perdita, che è preziosissima, come dirò tra poco) dovuto all’utilizzo sistematico di pc, tablet o smartphone per la ricerca di informazioni spesso irrelate; la tendenza all’accentramento dell’attenzione sulla figura del docente anziché sulla sua natura di artigiano che padroneggia una tecnica, facilitatore degli apprendimenti o testimone di un sapere rispetto al quale è necessariamente decentrato; infine, l’estrema prossimità tra stimolo e risposta che caratterizza e rafforza dinamiche di motivazione estrinseca all’apprendimento, per cui anche ad un atto educativo deve corrispondere un feedback immediato (tanto spesso da essere meramente numerico), anziché una riflessione che valuta progressi e passi indietro in una visione complessiva e formativa che matura in tempi necessariamente più lunghi. Com’è evidente, questo campionario potrebbe essere ulteriormente arricchito sulla base delle diverse più diverse personali.
Mentre percorrevo a piedi la strada dal municipio di Carbonera all’archivio, immaginavo uno scenario esattamente antitetico rispetto a quello appena delineato: mi rappresentavo infatti un laboratorio sull’archivio storico comunale con caratteristiche di immersività1, in cui i ragazzi potessero confrontarsi a mani nude con i materiali documentari, con la struttura topografica e materiale dell’archivio stesso, in un vero e proprio corpo a corpo, il meno mediato possibile dall’insegnante.2 E ciò anche in virtù del fatto particolare che, nel nostro caso, l’archivio presenta una continuità logistica con l’istituto, trovandosi sotto la palestra della scuola media. Immaginare quindi i ragazzi alle prese con un faldone di carte eterogenee risalenti alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, mi sembrava l’ipotesi meno accattivante, nel senso deteriore del termine, a cui poter sottoporre l’attenzione dei miei alunni.
Com’è facile supporre, rispetto ai miei propositi iniziali di un laboratorio integralmente immersivo sono presto giunto a più miti consigli: ed è esattamente di questo lavoro di mediazione che intendo dare conto in questo breve contributo, che può essere considerato come il resoconto di un viaggio intrapreso nel deliberato tentativo di emancipazione dai cliché dell’accattivante.
La speranza che sento di dichiarare subito a tutte le colleghe e i colleghi che leggeranno queste pagine, è che il racconto di condizioni, mediazioni, rinunce e momenti di scacco che caratterizzano così profondamente il nostro lavoro, mantenga intatte alcune tracce del nudo confronto con i documenti che ha idealmente animato l’esistenza stessa del laboratorio. Approfitto inoltre di questa possibilità di riflessione per farmi accompagnare, in questo breve viaggio, da alcuni autori (romanzieri, registi, filosofi) verso cui mi ritengo debitore per tutto ciò che penso sia fondamentale nel mio lavoro quotidiano.
§2. Laboratorio sull’archivio storico comunale – Condizioni
Nell’articolazione e nella proposta di un laboratorio sull’archivio storico comunale, più che in attività di didattica segmentate secondo modelli più tradizionali, emerge maggiormente la necessità di mettere a fuoco alcune condizioni di lavoro, relative non soltanto ad un orizzonte pragmatico (cosa fa il docente, cosa fanno gli alunni) ma anche al ruolo dell’insegnante nel processo di apprendimento-insegnamento.
§2.1 Laboratorio sull’archivio storico comunale – Camminare qualche passo avanti
Nell’epilogo di Non è un paese per vecchi dello scrittore statunitense Cormac McCarthy, il protagonista del romanzo, lo sceriffo Ed Bell, racconta alla moglie due sogni in cui gli era apparso suo padre, morto diversi decenni prima. Rievocando il secondo sogno, Bell racconta di suo padre che, in una notte buia e fredda, lo affianca e lo supera in sella al proprio cavallo, reggendo un corno in cui brilla la luce tremula di una fiamma: il padre, si legge nelle parole di Bell, “era avvolto in una coperta e teneva la testa bassa […] e nel sogno sapevo che stava andando avanti per accendere un fuoco da qualche parte in mezzo a tutto quel buio e quel freddo, che quando ci sarei arrivato l’avrei trovato ad aspettarmi”.3 I padri di McCarthy – e non importa se siano vivi, morti o fantasmatici, tanto sono scorciati in un potentissimo chiaroscuro che li restituisce alla loro dimensione archetipica – spesso non hanno nemmeno un nome. Parlano poco, e non di rado si riducono a corpi che si muovono in una natura indifferente e crudele, di cui studiano i segni nel tentativo di un addomesticamento mai definitivo.4 Incapaci di ogni contemplazione dei paesaggi che McCarthy descrive, i padri li attraversano senza quasi vederli, perché costantemente occupati a scrutare l’orizzonte da dove potrebbe giungere la salvezza oppure la morte. Per questo i padri camminano sempre qualche passo avanti ai propri figli, calpestando una strada che prima non esisteva e che invitano a percorrere, raccogliendo segni da interpretare nel rapporto con un mondo nella sua essenza inaccessibile.
Come accade allo sceriffo Bell nel sogno appena citato, l’immagine del padre si definisce più rispetto ad un accadere da cui i padri stessi non possono essere distinti (siano essi attori o testimoni) che ad una precisa fisionomia, fisica o psicologica. Questo legame inscindibile tra le figure paterne e gli accadimenti in cui vengono imbrigliati emerge in modo esemplare in un’altra figura tratteggiata da McCarthy nel romanzo Oltre il confine, secondo capitolo della cosiddetta “Trilogia della frontiera”.5 In una contea a sud del Nuovo Messico, un cow boy insieme ai due figli si mette sulle tracce di una lupa che, sconfinando da sud, compie razzie di bestiame. Una mattina, all’alba, il padre e i figli si mettono in viaggio con l’obiettivo di disseminare di tagliole un valico montuoso per catturare l’animale. La descrizione degli atti con cui il padre sotterra una trappola è talmente precisa ed accurata da emanciparsi sia da una finalità narrativa che descrittiva, per arrogarsi il compito di incarnare una modalità di relazione tra il soggetto e il mondo: la sua natura più propriamente regolativa descrive a tutti gli effetti una tecnica (intesa nel suo senso etimologico, quello della téchne greca e dell’ars latina) attraverso la quale gli uomini pongono in essere e consolidano abitudini e comportamenti, e in questo modo, mostrandoli concretamente in atto, contribuiscono alla loro trasmissione.6 E non è quindi un caso che, subito dopo, McCarthy puntualmente chiarisca il valore semantico assunto da questa operazione: il padre, “accovacciato nell’ombra irregolare, con il sole alle spalle e la trappola all’altezza degli occhi, in controluce, sembrava stesse mettendo a punto uno strumento più antico, di ben più alta precisione. Un astrolabio o forse un sestante. Sembrava intento a definire la propria posizione nel mondo. Intendo a definire con un arco o una corda lo spazio tra il proprio essere e il mondo.”7
Ma non è tutto. Al ritorno da una di queste spedizioni, il padre e i figli stanno cavalcando, ancora esposti al gelo dell’altura. Così McCarthy riporta un breve dialogo tra il figlio minore e il padre: “Boyd in sella tremava e aveva le labbra violacee. Il padre lo affiancò, si tolse la giacca e gliela passò. Non ho freddo, disse Boyd. Non ti ho chiesto se hai freddo. Mettitela”.8 Camminare un passo avanti non significa soltanto padroneggiare una tecnica per poterla trasmettere o per consolidarla in un comportamento: significa anche proteggere. In questo caso le parole del padre, riportate senza segni di punteggiatura o indicazioni prosodiche di matrice teatrale su tono e intonazione della voce dei personaggi, possono essere lette e interpretate con sfumature diverse di autoritarismo: oltre a ciò, mi sembra tuttavia che emerga in modo chiaro e netto l’accettazione, da parte del padre, della propria responsabilità di protezione nei confronti del figlio, vista come un dato che presenta la stessa materialità della natura in cui i personaggi si muovono. Responsabilità della protezione che non ha bisogno di spiegazioni astratte o argomentazioni complesse: il proteggere si attua prima di tutto attraverso un corpo, delle mani e dei gesti, o grazie da una voce che costituisce in qualche modo un prolungamento acustico e sonoro di questa dimensione organica e corporea, e non soltanto come veicolo di una verbosità astratta e disincarnata.
A mio avviso questi passaggi tratti dai romanzi di McCarthy possono gettare alcuni scorci interpretativi su svariate questioni che riguardano il nostro lavoro, restituendole depurate dalle contingenze con cui si presentano nella nostra quotidianità. Innanzitutto, camminare un passo avanti, per noi insegnanti, significa possedere e trasmettere le tecniche (metaforicamente il “fuoco” prometeico che ricorre così spesso nei romanzi dello scrittore americano), riconoscendo in esse un valore che va oltre la mera prestazione scolastica. Pur con tutte le inevitabili e necessarie mediazioni didattiche, padroneggiare le tecniche e mostrarle ai ragazzi mentre le stiamo mettendo in atto davanti ai loro occhi costituisce una condizione essenziale per l’apprendimento: se negli ultimi anni si è enfatizzata – e con ottime ragioni – la figura dell’insegnante-facilitatore nei processi di autoapprendimento, l’esercizio condiviso e guidato dall’insegnante delle tecniche relative alle abilità di base (come lettura, esposizione orale, scrittura, comprensione del testo e gerarchizzazione delle informazioni) su cui lavoriamo quotidianamente con i ragazzi è sicuramente decisiva e non eludibile, e si rivela fondamentale per consolidare abitudini e comportamenti. In secondo luogo, camminare un passo avanti significa inevitabilmente celarsi allo sguardo degli alunni, come accade al padre dello sceriffo Bell, che dà le spalle al proprio figlio, assumendo così i tratti di una figura archetipica. A mio avviso, anche in ambito educativo, si può ravvisare la necessità di una piena assunzione del proprio ruolo da parte degli insegnanti, evitando così i problemi generati da scelte ad essa opposte, come ad esempio un’abdicazione forzata (causata da difficoltà ambientali) o persino da una deliberata rinuncia: la conseguente confusione di ruoli che deriva da queste dinamiche potrebbe portare ad un ventaglio di modalità di relazione educativa in cui forme diversificate di indulgenza, di disinteresse oppure anche di accentramento personalistico (quando non di deliberato esibizionismo), per quanto possano presentarsi come “comode” vie d’uscita dalla fatica del sostenere il ruolo educativo, potrebbero risultare dannose e controproducenti. Infine, camminare un passo avanti significa anche saper assumersi la responsabilità della protezione, che avviene prima di tutto attraverso atti rispetto ai quali la parola è subordinata, oppure attraverso richieste non negoziabili nel percorso di osservazione, comprensione e assimilazione delle tecniche. Ciò non significa che l’insegnante non debba giustificare le ragioni delle proprie scelte didattiche, anzi: ciascuno di noi deve sapere in ogni momento rendere conto di una scelta, soprattutto ai propri ragazzi. Tuttavia, è fondamentale che la giustificazione didattica che offriamo loro non eviti un confronto aperto, chiaro e non compromissorio e, quando è necessario, anche un certo spessore dialettico in cui stanno di fronte all’altra posizioni non necessariamente mediabili.
§2.2 Laboratorio sull’archivio storico comunale – Perdere tempo
La seconda condizione è quella di imporsi la necessità di perdere tempo.
Ho già fatto cenno nell’introduzione ad uno dei sensi deteriori del perdere tempo, che negli ultimi anni, anche grazie anche ad alcuni esiti deleteri dell’esperienza della didattica a distanza, ha fatto breccia nella quotidianità di alunni e docenti: si perde tempo per accendere un pc, per recuperare un documento che potrebbe essere stato archiviato in una, due o tre piattaforme diverse; si perde tempo nel dover svolgere o consegnare online un compito assegnato; molto spesso i ragazzi perdono tempo nella ricerca di informazioni rincorrendole in ambienti virtuali che non sono in grado di consultare e gestire in tempi ragionevoli; infine, l’ipertrofia di attività da svolgere online porta inevitabilmente a dinamiche di iperconnessione, con tutti i rischi ad essa correlati.
Tuttavia, perdere tempo potrebbe non suggerire soltanto scorci di alienazione tecnologica e comunicativa, ma anche costituire la condizione stessa di possibilità di un apprendimento non orientato alla prestazione ma all’esplorazione della realtà nella sua complessità e alla ridefinizione progressiva del rapporto tra il soggetto che apprende e il mondo che lo circonda. Ad esempio, possiamo facilmente osservare cosa significhi perdere tempo nelle attività dei bambini nella prima infanzia: il gioco reiterato di spostamento e ricollocazione di semplici oggetti su un piano oppure uno sull’altro; la ripetizione, apparentemente soltanto esteriore, di gesti e movimenti che in realtà producono e rinforzano schemi di interazione con il mondo che li circonda; la richiesta di rileggere gli stessi libri o le stesse storie, o rivedere le stesse immagini, per consolidare il proprio vissuto emozionale, e così via. In questi casi, senza finalità o motivazioni estrinseche derivanti da gratificazioni o sanzioni, perdere tempo diventa una delle condizioni di un reale apprendimento.
Il nesso tra tempo perso e apprendimento è chiarito in modo esemplare dal filosofo francese Gilles Deleuze nel primo capitolo di Marcel Proust e i segni,9 in cui la Ricerca del tempo perduto viene interpretata non tanto come un’analisi fenomenologica della memoria (dei suoi successi o dei suoi momenti di inciampo), quanto come modello di una ricerca della verità in cui l’apprendimento e modo in cui avviene hanno un ruolo centrale. Deleuze osserva: “Da un lato, la Ricerca non è semplicemente uno sforzo per ricordare, un’esplorazione della memoria: il termine «ricerca» va preso nel suo senso più forte, come nell’espressione «ricerca della verità». D’altra parte, il tempo perduto non è semplicemente il tempo passato; è anche il tempo che si perde come nell’espressione «perdere tempo»”. Qualche riga dopo, Deleuze chiarisce come la dimensione della temporalità insita in ogni impresa di conoscenza strutturi profondamente il rapporto tra il soggetto che apprende e il mondo che interroga: nonostante infatti il saggio su Proust riguardi l’apprentisage di un letterato, Deleuze, per illustrare il nesso inscindibile che lega ricerca, temporalità e segno, ricorre all’ambito delle tecniche e delle arti, evocando persino la dimensione della “vocazione”, che ha un ruolo così importante anche nei percorsi di orientamento che proponiamo nell’arco del triennio. Scrive infatti Deleuze: “Apprendere è cosa che concerne essenzialmente i segni. Questi sono appunto oggetto di un apprendimento temporale, non di un sapere astratto. Apprendere significa anzitutto considerare una materia, un oggetto, un essere, come se emettessero segni da decifrare, da interpretare. […] Non si diventa falegnami se non facendosi sensibili ai segni del legno, o medici, a quelli della malattia. La vocazione è sempre predestinazione in rapporto ai segni. Tutto ciò che ci fa apprendere qualcosa emette segni, ogni atto dell’apprendere è un’interpretazione di segni […].”
In quale modo a scuola è possibile proporre questa esperienza del perdere tempo non come una mera evasione da una pratica avvertita come logora, ma ritrovandola come condizione stessa dell’apprendimento (degli alunni, ma anche nostro)? Tra le varie riflessioni che mi sembra di poter suggerire, in relazione al progetto che tra poco illustrerò, accenno a qualche ipotesi di approccio alla nostra professione che potrebbe orientare anche qualche scelta pratica. Innanzitutto anche noi insegnanti per primi dovremmo accettare di perdere tempo, rinunciando così ad un passo (avanti?) nel cosiddetto “programma” (che non esiste più in alcuna linea guida, ma che – anche quando viene sostituito dal concetto di “programmazione” – si sente spesso citare come misura di ogni scelta didattica) o ad esempio evitando di suddividere il numero di pagine del libro di testo per il numero di lezioni annuali, in modo da giustificare a genitori poco informati l’esaurimento degli argomenti previsti dal manuale in adozione. Esistono molte alternative alla didattica del programma, peraltro ormai note: l’integrazione della troppo vituperata, e a mio avviso ancora fondamentale, lezione frontale con attività pratiche e cooperative; la riduzione dell’ottica prestazionale a favore del monitoraggio dei processi attraverso la loro condivisione collettiva; la riduzione quantitativa (sia nella durata che nella consistenza) dei momenti di verifica e valutazione per la proposta di attività di apprendimento tra pari; per quanto riguarda le materie letterarie, lasciare spazio alla lettura individuale, articolare momenti di confronto con la scrittura senza imbrigliarli nel bavaglio di tempi rigidi imposti dal classico tema; privilegiare l’apprendimento per scoperta e un approccio pratico di conoscenza.
§2.3 Laboratorio sull’archivio storico comunale – Fare la differenza
Deleuze in Proust e i segni è molto chiaro anche nell’affermare, relativamente alla ricerca e all’apprendimento nel tempo attraverso i segni, anche la possibilità dello scacco e dell’insuccesso: anche noi insegnanti dobbiamo accettare la possibilità concreta del fallimento in ambito educativo come dimensione non eliminabile del nostro lavoro. Sto parlando innanzitutto del fallimento dei ragazzi nel loro percorso scolastico più o meno futuro, o persino nelle loro scelte di vita e, come conseguenza, anche del senso di fallimento che proviamo in prima persona nel momento in cui le nostre aspettative – sia rispetto ai ragazzi che all’immagine di noi stessi come professionisti – si rivelano disattese.
Proprio il senso dell’insuccesso ci porta a confrontarci con una domanda in modo diretto: cosa fa la differenza nel nostro lavoro? Probabilmente abbiamo rinunciato ad elaborare una risposta precisa, preferendo delegare a ciò che c’è fuori di noi e del nostro controllo il compito di giustificare i nostri (a volte anche soltanto presunti) insuccessi. L’attivazione di meccanismi di attribuzione causale esterna tende a preservare noi stessi da una delle poche realtà davvero oggettive del nostro lavoro, e cioè il fatto che esso, forse come pochi altri, è costitutivamente esposto al rischio del fallimento. Ciò in ragione del fatto che un sistema complesso come quello scolastico si pone all’incrocio di un insieme eterogeneo di forze esterne ad esso, peraltro in rapidissima trasformazione negli ultimi anni, che sembrano quasi ridimensionare la figura del docente a piccolo satellite periferico del sistema: penso in primis al ruolo educativo delle famiglie, all’evoluzione tecnologica e comunicativa, al ruolo del decisore politico con le sue ipotesi di riforma e le sue scelte organizzative, alla rilevanza dell’istruzione attribuita alla scuola dagli organi di informazione e dalla società civile. Di fronte a questo panorama così complesso, disarticolato e spesso non comunicante (verso il quale può dirigersi l’attribuzione causale esterna da parte del docente, e che sul versante soggettivo può configurarsi come un senso di frustrazione, impotenza e inadeguatezza), ritornare alla domanda “che cosa fa la differenza?” può diventare in qualche modo decisivo, poiché potrebbe contribuire a rimettere la professionalità del docente ad un ruolo meno periferico della galassia-scuola e, soprattutto, a riconfigurare l’immagine che il docente ha di sé, al di fuori della relazione con le aspettative sociali.10
Anche su questo tema il pensiero di Gilles Deleuze a mio avviso offre degli spunti interessanti, soprattutto nell’introduzione e nel primo capitolo di Differenza e ripetizione.11 Per Deleuze la differenza non è qualcosa che viene semplicemente colto come il risultato di un confronto tra due o più enti nella loro presunta oggettività, ma come l’esito di un atto del pensiero che “fa la differenza” cogliendo una determinazione dentro l’“abisso indifferenziato, […] il bianco niente” in cui fluttuano “determinazioni slegate, come membra sparse, teste decollate, braccia prive di spalle, occhi senza fronte”: è ciò che Deleuze definisce in altri scritti successivi con il concetto di caos che, diversamente da come viene interpretato abitualmente, non consiste in un disordine indifferenziato, ma un complesso di determinazioni slegate tra loro prive di relazione l’una con l’altra. Rispetto al caos così configurato, secondo Deleuze, il pensiero, più che riflettere, osservare e constatare, agisce, tracciando un linea o posizionando su uno stesso piano determinazioni prima sfuggenti. La differenza è quindi, ancora una volta, l’esito di un atto concreto del pensiero che dà ordine: tuttavia l’atto del pensare non necessariamente è limitato alla sola filosofia speculativa, in quanto anche la scienza, la critica letteraria, le arti plastiche e pittoriche, il teatro, il cinema e la psicanalisi presentano questa stessa aspirazione. Ancora una volta la domanda sul modo in cui si può “fare la differenza” trova una possibile risposta nel consolidamento di una tecnica – sempre intesa nel suo senso etimologico –, che agisce su un campo di forze complesse (dalle dinamiche interne all’aula a quelle istituzionali e territoriali, fino a quelle – molto sottovalutate – interne al docente stesso) che tenta di ristrutturare attraverso un lavoro di mediazione e affinamento progressivo dei propri strumenti di lavoro.
Se pensare è quindi “fare la differenza” nel senso di cogliere la determinazione all’interno del caos, uno degli scopi dell’attività educativa potrebbe essere proprio quello di fare in modo che i ragazzi, anziché imparare astrattamente, vivano concretamente e quotidianamente l’esperienza di che cosa significa realmente “fare la differenza”. In questo senso la mediazione didattica operata dal docente ha un ruolo fondamentale, nel determinare e predisporre un territorio di esplorazione in cui le incertezze e le difficoltà non siano insormontabili ma implichino invece delle sfide riconosciute come significative da parte dei ragazzi.
§3. Laboratorio sull’archivio storico comunale – Mediazioni
A questo punto cercherò di entrare nel merito della proposta laboratoriale di ricerca d’archivio, con l’auspicio di rendere evidenti gli snodi teorici e le conseguenze pragmatiche di quanto affermato nei paragrafi precedenti.
§3.1 Laboratorio sull’archivio storico comunale – Tracciare un perimetro
La prima mediazione che il docente deve mettere in atto è abbastanza ovvia: perdere tempo in archivio, camminando qualche passo avanti rispetto alla classe, e simulando l’esperienza immersiva che intende declinare per i ragazzi, in modo da conservarne l’approccio originario ed evitare improvvisazioni che potrebbero portare ad un disorientamento al momento di affrontare il materiale documentario. Per raggiungere questo obiettivo è innanzitutto necessario perimetrare il campo di indagine: in questa fase, ci si può limitare anche all’individuazione di un mero criterio cronologico che, diversamente da un criterio tematico, preserva al meglio la caratteristica di immersività del lavoro in archivio. Nel caso del laboratorio sull’archivio storico comunale, la determinazione dei termini a quo e ad quem della ricerca è stata inoltre stabilita da ragioni di carattere pragmatico, imposte dalla collocazione delle attività tra il primo e il secondo quadrimestre: in previsione di avviare il laboratorio a gennaio e concluderlo in aprile (per un totale di dodici incontri complessivi da due ore ciascuno), è stato infatti necessario approcciare i materiali d’archivio dall’Unità d’Italia fino al Ventennio Fascista, in modo tale che, al momento della consultazione dei materiali, fossero già stati affrontati in modo approfondito in orario curricolare.
Alla determinazione del campo d’indagine possono evidentemente concorrere anche indici e apparati preesistenti, redatti nel corso del riordino dell’archivio, che possano indirizzare in modo più sicuro il reperimento di fonti di interesse, oppure anche i risultati di precedenti sopralluoghi, come accaduto nel nostro caso: sulla base delle attività già svolte con la collega Maestra Luisa Bordin (confluite, in anni scolastici diversi, nella realizzazione di un laboratorio in orario extracurricolare dedicato alla storia della scuola e successivamente nello sviluppo di un PON sul patrimonio artistico e culturale), ho deciso di orientare l’attenzione, quasi a colpo sicuro, ai documenti contenuti nei faldoni “Leva e truppa” e “Scuola e istruzione”, e soprattutto in quelli contrassegnati con la denominazione di “Corrispondenza diversa”, suddivisi per anno a partire dall’Unità d’Italia, dove sono stati archiviati nel corso del tempo tutti i materiali non immediatamente classificabili sotto le altre categorie previste dal sistema di indicizzazione degli archivi comunali.
Immediatamente successivo alla fase appena descritta è lo spoglio dei faldoni e la ricerca di materiali accessibili alla ricerca e soprattutto ai destinatari del laboratorio sull’archivio storico comunale: si tratta della fase cruciale di tutto il lavoro, quantificabile in svariate ore di tempo perduto in archivio. Anche in questo caso, molti elementi contingenti indirizzano la lettura dei faldoni: poiché i materiali saranno sottoposti alla lettura diretta degli alunni, ho dato prioritariamente importanza a documenti dattiloscritti oppure manoscritti in corsivo facilmente leggibile; nel caso di minute o documenti meno chiari, mi sono accertato che fossero particolarmente rilevanti in previsione dell’analisi storica condotta in orario curricolare. Questa fase esplorativa dell’archivio è stata appuntata su un quaderno in cui, faldone per faldone, ho annotato progressivamente i materiali più interessanti che presentassero le seguenti caratteristiche: solidi collegamenti con lo studio manualistico, al quale potrebbe essere necessario ritornare per inquadrare la fonte; in secondo luogo, caratteristiche di leggibilità autonoma da parte degli alunni ed infine la possibilità di individuare ancoraggi per eventuali approfondimenti.
§3.2 Laboratorio sull’archivio storico comunale – Gli strumenti dell’artigiano
Il secondo livello di mediazione con cui mi sono confrontato è la messa a punto degli strumenti di lavoro condivisi con la classe del laboratorio. Diversamente da quanto accade nella didattica dell’accattivante, per un laboratorio sulle fonti archivistiche non sono necessari strumenti particolarmente innovativi o complessi da utilizzare: mi soffermerò brevemente su ciascuno di essi, esponendoli in ordine di apparizione, nonostante il loro impiego possa evidentemente essere contemporaneo a diversi momenti del percorso.
Partirei quindi dal ruolo fondamentale assunto dal (1) manuale di Storia in adozione e dal (2) quaderno di Storia, che costituiscono per i ragazzi dei punti di ancoraggio contenenti conoscenze già acquisite di essenziale importanza nell’inquadramento e nella contestualizzazione dei documenti. In controtendenza a quanto si sente affermare nella vulgata della didattica dell’accattivante, il lavoro su (e con) manuale e quaderno costituisce ancora una base imprescindibile per ogni altro lavoro che si intenda costruire in forma laboratoriale, soprattutto in una classe terza media, quando gli alunni dovrebbero già essere in grado di orientarsi con sicurezza nella comprensione del testo espositivo, nell’individuazione della gerarchia dei concetti e delle informazioni più importanti e nella costruzione autonoma di mediatori per lo studio (cronologie, schemi per punti elenco, schemi di causa ed effetto, tabelle di confronto, schede di Cornell e quanto già sperimentato sotto la guida dell’insegnante) che confluiranno nel quaderno di Storia, che, se ben organizzato e conservato, costituirà la mappa del territorio concettuale che i ragazzi potranno in qualsiasi momento ripercorrere. La fonte storica infatti diventerà a tutti gli effetti un segno significativo soltanto se potrà essere ancorata a qualcosa di già noto per i ragazzi.
Il secondo strumento che ho predisposto sono stati dei (3) faldoni per documenti vuoti, acquistati allo scopo che ciascuno di essi contenga al suo interno un singolo segmento del faldone selezionato dell’archivio storico, che in questo modo viene suddiviso in fascicoli più agili e di più facile consultazione. Per il confronto con i faldoni avvenuto nei locali dell’archivio storico, i ragazzi si sono dotati di (4) guanti in lattice, in modo da preservare l’integrità dei materiali presi in esame.
Durante la consultazione dei documenti (oppure in un momento immediatamente successivo), i ragazzi hanno compilato una (5) scheda preliminare di analisi della fonte storica predisposta dall’insegnante, nel caso si siano imbattuti in documenti ritenuti più interessanti rispetto ad altri.12 In questa fase è necessario lasciare che i ragazzi si confrontino in modo più libero possibile con il materiale documentario: per questo motivo il docente dovrà astenersi nella maggior misura possibile dallo “scremare” le fonti scelte dai ragazzi, anche quando esse siano poco significative dal punto di vista strettamente storiografico. La loro rilevanza può essere vagliata in un momento successivo, come ad esempio nel corso di una riflessione collettiva sui documenti: quelli individuati come i più interessanti sono stati riprodotti con uno (6) scanner, per poter essere più facilmente condivisi o rielaborati.
Nella prospettiva di realizzare degli artefatti del lavoro sull’archivio, siamo ricorsi alla stesura dei testi di commento e analisi utilizzando (7) l’aula di informatica e le applicazioni della (8) Gsuite di istituto (in particolar modo Classroom, Drive, Documenti e Presentazioni), in modo che i file di lavoro potessero essere facilmente condivisi, mentre per la realizzazione dei manifesti è stato utilizzato il (9) programma gratuito OpenDraw.
In laboratori di questo tipo sono molti importanti a mio avviso il monitoraggio dei processi, la raccolta e la condivisione delle idee in itinere, che è stata svolta collettivamente utilizzando un (10) pc collegato ad un proiettore o ad una lavagna multimediale, in modo che tutta la classe potesse seguire lo sviluppo del progetto.
§3.3 Laboratorio sull’archivio storico comunale – Solo burocrazia? Forse no.
A volte la stesura di un progetto da presentare al Collegio Docenti non è un semplice adempimento burocratico, poiché permette di definire anticipatamente gli scopi del laboratorio sull’archivio storico comunale, le fasi di lavoro, le modalità di verifica o valutazione, permettendo così al docente di circostanziare in modo più preciso, per quanto sempre provvisorio, problemi da risolvere, competenze da potenziare e tecniche da affinare. E soprattutto permette di poter valutare in itinere possibili variazioni o deviazioni dal progetto in corso d’opera. Per questo motivo, ho deciso di riportare qui fedelmente quanto appuntato a suo tempo nella scheda del progetto.
Laboratorio sull’archivio storico comunale: descrizione sintetica del progetto:
Questo progetto di laboratorio sull’archivio storico comunale di Carbonera scaturisce dall’esplorazione di alcuni settori dell’archivio già condotta da Luisa Bordin e Francesco Netto nel corso degli anni scolastici precedenti, preliminare alla strutturazione dei progetti PON sul Patrimonio artistico e culturale e nell’organizzazione di un laboratorio dedicato alla scuola e all’istruzione.
Il progetto che sarà ora dettagliato è destinato, nell’A.S. 2021-22, alle classi quinte della Scuola Primaria e alla classe terza della Scuola Secondaria di Primo Grado con orario a settimana lunga, più congeniale alla proposta di un’attività di approfondimento extracurricolare. Si ritiene infatti che non sia possibile proporre un rientro pomeridiano agli alunni che concludono la frequenza alle lezioni mattutine alle ore 14.00 e, per evidenti motivi di scelta delle famiglie, il sabato mattina.
Per quanto concerne le classi quinte della Scuola Primaria, l’attività prevede la strutturazione di un percorso in cui […]; per quanto concerne le classi terze di Scuola Secondaria di Primo Grado, l’approccio laboratoriale sarà di carattere immersivo: gli alunni prenderanno in esame nelle modalità illustrate i documenti dell’archivio e li contestualizzeranno sulla base delle proprie conoscenze storiografiche e dei materiali predisposti dall’insegnante.
Gli enti che collaborano alla fattibilità del progetto sono il Comune di Carbonera, che mette a disposizione l’archivio per la consultazione e la ricerca storica (come previsto dalla normativa vigente), e la Rete delle Geostorie su scala locale, a cui l’Istituto afferisce e che fornisce supporto ideativo e scientifico.
Laboratorio sull’archivio storico comunale: fasi del lavoro previste:
Scuola Secondaria di Primo Grado
La proposta laboratoriale si articola in quattro momenti fondamentali, non necessariamente caratterizzati da rigida sequenzialità, ma flessibili e aperti ad eventuali ristrutturazioni in itinere sulla base delle necessità emerse. Nella loro scansione logica, i momenti sono i seguenti:
1) Esplorazione, singola o a piccoli gruppi, dei faldoni dell’archivio, preceduta da una visita all’archivio comunale ubicato sotto la palestra della Scuola Secondaria “Pino da Zara”; saranno presi in esame i faldoni di “corrispondenza varia”, nei quale sono confluiti i materiali più eterogenei, e i faldoni relativi ai documenti scolastici, databili grossomodo dall’Unità fino alla Seconda Guerra Mondiale.
2) Individuazione e contestualizzazione di una o più fonti storiche: selezione e contestualizzazione delle fonti che ciascun alunno, singolarmente o in piccolo gruppo, intende analizzare, in quanto ritenute importanti sulla base di motivazioni personali; tale lavoro può essere integrato anche con fonti della propria storia familiare. Il lavoro di contestualizzazione prevede consultazione di materiali bibliografici adatti all’età dei discenti, libri di testo, archivi online, materiali predisposti dal docente.
3) Preparazione di apparati esplicativi, destinati ad una diffusione della ricerca effettuata, in forma scritta, grafica o multimediale.
4) Presentazione alla cittadinanza, tramite una conferenza in cui vengono presentate le fonti prese in esame e la metodologia di ricerca storica, da organizzare in collaborazione con gli enti del territorio.
Laboratorio sull’archivio storico comunale: definizione degli obiettivi formativi:
Per quanto concerne (1) l’organizzazione della didattica, la sparizione del tempo prolungato con i potenziamenti disciplinari rende sempre più difficile la proposta di attività laboratoriali integrate alla programmazione curricolare, soprattutto nell’ambito di saperi complessi e stratificati come quelli delle scienze umane, non riducibili per propria natura ad una serie di lezioni irrelate. Si rende quindi urgente la proposta di un laboratorio extracurricolare di carattere interdisciplinare, integrato ai percorsi curricolari e valorizzabile anche in sede di esame orale di licenza media.
Per quanto riguarda (2) il valore formativo dell’offerta, si rende sempre più evidente – a fronte della simultaneità caratterizzata dai nuovi media nella percezione dei fruitori – la necessità della narrazione come momento preliminare all’evidenziazione di differenze e contiguità tra passato e presente, tra storia personale e familiare su un versante, e la storia manualistica e l’attualità dall’altro.
Infine, (3) i nuovi scenari didattici legati alla diffusione della pandemia da Covid 19 rendono necessaria l’apertura di spazi i studio e lavoro condiviso, destinati a colmare gli inevitabili gap formativi e relazionali generati da questa congiuntura per gli allievi in età evolutiva. Relativamente a questo punto, il progetto ha natura scalabile: permette infatti di rimodulare organizzazione e numero dei destinatari sulla base di eventuali restrizioni previsti dai DPCM, oppure di essere svolto in modalità a distanza.
Laboratorio sull’archivio storico comunale: riferimenti al frame delle competenze europee:
Il laboratorio storico coinvolge lo sviluppo di molte competenze-chiave europee:
Comunicare nella madrelingua, relativamente alla lettura e all’analisi di testi narrativi, espositivi e argomentativi, e all’interrogazione di fonti storiche;
Imparare ad imparare, relativamente ai processi di pianificazione e strutturazione di una presentazione degli argomenti svolti, di produzione di strumenti per la raccolta di dati e per la loro rappresentazione;
Competenze digitali, relative alla realizzazione di semplici presentazioni (con Power-point) attraverso la videoscrittura;
Competenze sociali e civiche, relativamente al lavoro cooperativo in piccoli gruppi;
Consapevolezza ed espressione culturale, relativa alla valorizzazione di eventuale patrimonio di fonti storiche locali e/o familiari;
Spirito di iniziativa e imprenditorialità, relativamente al coinvolgimento di ciascun allievo nella pianificazione delle attività e nel reperimento di fonti storiche del proprio nucleo familiare.
§3.4 Laboratorio sull’archivio storico comunale – ImprovvisazioneQuesto progetto di laboratorio sull’archivio storico comunale di Carbonera scaturisce dall’esplorazione di alcuni settori dell’archivio già condotta da Luisa Bordin e Francesco Netto nel corso degli anni scolastici precedenti, preliminare alla strutturazione dei progetti PON sul Patrimonio artistico e culturale e nell’organizzazione di un laboratorio dedicato alla scuola e all’istruzione.
Il progetto che sarà ora dettagliato è destinato, nell’A.S. 2021-22, alle classi quinte della Scuola Primaria e alla classe terza della Scuola Secondaria di Primo Grado con orario a settimana lunga, più congeniale alla proposta di un’attività di approfondimento extracurricolare. Si ritiene infatti che non sia possibile proporre un rientro pomeridiano agli alunni che concludono la frequenza alle lezioni mattutine alle ore 14.00 e, per evidenti motivi di scelta delle famiglie, il sabato mattina.
Per quanto concerne le classi quinte della Scuola Primaria, l’attività prevede la strutturazione di un percorso in cui […]; per quanto concerne le classi terze di Scuola Secondaria di Primo Grado, l’approccio laboratoriale sarà di carattere immersivo: gli alunni prenderanno in esame nelle modalità illustrate i documenti dell’archivio e li contestualizzeranno sulla base delle proprie conoscenze storiografiche e dei materiali predisposti dall’insegnante.
Gli enti che collaborano alla fattibilità del progetto sono il Comune di Carbonera, che mette a disposizione l’archivio per la consultazione e la ricerca storica (come previsto dalla normativa vigente), e la Rete delle Geostorie su scala locale, a cui l’Istituto afferisce e che fornisce supporto ideativo e scientifico.
Laboratorio sull’archivio storico comunale: fasi del lavoro previste:
Scuola Secondaria di Primo Grado
La proposta laboratoriale si articola in quattro momenti fondamentali, non necessariamente caratterizzati da rigida sequenzialità, ma flessibili e aperti ad eventuali ristrutturazioni in itinere sulla base delle necessità emerse. Nella loro scansione logica, i momenti sono i seguenti:
1) Esplorazione, singola o a piccoli gruppi, dei faldoni dell’archivio, preceduta da una visita all’archivio comunale ubicato sotto la palestra della Scuola Secondaria “Pino da Zara”; saranno presi in esame i faldoni di “corrispondenza varia”, nei quale sono confluiti i materiali più eterogenei, e i faldoni relativi ai documenti scolastici, databili grossomodo dall’Unità fino alla Seconda Guerra Mondiale.
2) Individuazione e contestualizzazione di una o più fonti storiche: selezione e contestualizzazione delle fonti che ciascun alunno, singolarmente o in piccolo gruppo, intende analizzare, in quanto ritenute importanti sulla base di motivazioni personali; tale lavoro può essere integrato anche con fonti della propria storia familiare. Il lavoro di contestualizzazione prevede consultazione di materiali bibliografici adatti all’età dei discenti, libri di testo, archivi online, materiali predisposti dal docente.
3) Preparazione di apparati esplicativi, destinati ad una diffusione della ricerca effettuata, in forma scritta, grafica o multimediale.
4) Presentazione alla cittadinanza, tramite una conferenza in cui vengono presentate le fonti prese in esame e la metodologia di ricerca storica, da organizzare in collaborazione con gli enti del territorio.
Laboratorio sull’archivio storico comunale: definizione degli obiettivi formativi:
Per quanto concerne (1) l’organizzazione della didattica, la sparizione del tempo prolungato con i potenziamenti disciplinari rende sempre più difficile la proposta di attività laboratoriali integrate alla programmazione curricolare, soprattutto nell’ambito di saperi complessi e stratificati come quelli delle scienze umane, non riducibili per propria natura ad una serie di lezioni irrelate. Si rende quindi urgente la proposta di un laboratorio extracurricolare di carattere interdisciplinare, integrato ai percorsi curricolari e valorizzabile anche in sede di esame orale di licenza media.
Per quanto riguarda (2) il valore formativo dell’offerta, si rende sempre più evidente – a fronte della simultaneità caratterizzata dai nuovi media nella percezione dei fruitori – la necessità della narrazione come momento preliminare all’evidenziazione di differenze e contiguità tra passato e presente, tra storia personale e familiare su un versante, e la storia manualistica e l’attualità dall’altro.
Infine, (3) i nuovi scenari didattici legati alla diffusione della pandemia da Covid 19 rendono necessaria l’apertura di spazi i studio e lavoro condiviso, destinati a colmare gli inevitabili gap formativi e relazionali generati da questa congiuntura per gli allievi in età evolutiva. Relativamente a questo punto, il progetto ha natura scalabile: permette infatti di rimodulare organizzazione e numero dei destinatari sulla base di eventuali restrizioni previsti dai DPCM, oppure di essere svolto in modalità a distanza.
Laboratorio sull’archivio storico comunale: riferimenti al frame delle competenze europee:
Il laboratorio storico coinvolge lo sviluppo di molte competenze-chiave europee:
Comunicare nella madrelingua, relativamente alla lettura e all’analisi di testi narrativi, espositivi e argomentativi, e all’interrogazione di fonti storiche;
Imparare ad imparare, relativamente ai processi di pianificazione e strutturazione di una presentazione degli argomenti svolti, di produzione di strumenti per la raccolta di dati e per la loro rappresentazione;
Competenze digitali, relative alla realizzazione di semplici presentazioni (con Power-point) attraverso la videoscrittura;
Competenze sociali e civiche, relativamente al lavoro cooperativo in piccoli gruppi;
Consapevolezza ed espressione culturale, relativa alla valorizzazione di eventuale patrimonio di fonti storiche locali e/o familiari;
Spirito di iniziativa e imprenditorialità, relativamente al coinvolgimento di ciascun allievo nella pianificazione delle attività e nel reperimento di fonti storiche del proprio nucleo familiare.
“Solo chi è ben preparato ha l’opportunità di improvvisare”: così scriveva il grande regista svedese Ingmar Bergman in un illuminante saggio dedicato alle arti della finzione, ed in particolare al teatro al cinema. Pur non essendo un attore o un musicista, anche l’artigiano esperto (artista?) dell’insegnamento può giustificatamente arrogarsi questo diritto.
La capacità di improvvisazione più sottile e produttiva è sicuramente quella che permette al docente di cogliere, nella quotidianità della relazione con la classe, segni che possono ridefinire nell’immediato metodi e strumenti dell’ora di lezione, oppure provocare deviazioni rese necessarie da bisogni emotivi o formativi, dell’intera classe come di un singolo alunno. Penso che ciascuno di noi abbia sperimentato l’efficacia di saper cogliere una deviazione del progetto di lezione predefinito, al fine di gestire un momento di analisi collettiva di qualche problema, oppure rimodulando le attività e gli obiettivi sulla base della contingenza del momento e dei feedback verbali o non verbali offerti dalla classe.
Com’è facile intuire, rispetto alla formalizzazione progettuale del nostro laboratorio sull’archivio storico comunale si sono resi necessari diversi aggiustamenti in corso d’opera. Quello sicuramente più significativo è stato lo slittamento dall’attività di indagine immersiva dei faldoni d’archivio all’analisi di una selezione più ristretta di materiali scelti e riprodotti dall’insegnante.13 Il passaggio tra queste due diverse modalità di ricostruzione dell’archivio per finalità didattiche è avvenuto dopo la segmentazione e l’analisi dei faldoni di corrispondenza diversa tra il 1900 e il 1909 e del faldone sulla Leva e Truppa 15-18, ed ha quindi interessato la fase del Primo Dopoguerra e del Ventennio Fascista. Le ragioni di questa rimodulazione del percorso è stata motivata dal fatto che i ragazzi, nella prima parte del laboratorio, avevano dedicato diverse ore all’indagine immersiva, e quindi erano sufficientemente venuti a contatto con i materiali documentari, per cui ho ritenuto di passare ad una fase di lavoro maggiormente finalizzata all’analisi delle fonti.
Un secondo momento di mediazione significativo si è posto nel momento in cui, una volta scelte le fonti ritenute interessanti per l’analisi, è stato necessario indicare ai ragazzi percorsi di approfondimento specifici per ciascun documento, da svolgere singolarmente o in piccolo gruppo. Molto spesso si è rivelato sufficiente un ritorno ai materiali presenti nel manuale e nel quaderno di Storia, mentre in altri casi ho dovuto riprodurre dei materiali o indicare la loro presenza in rete ai ragazzi: questo momento è piuttosto delicato, poiché è necessario individuare dei testi o dei video accessibili, tenendo conto anche delle capacità di letture e comprensione dei singoli alunni. Nell’ottica di un laboratorio condiviso a livello dipartimentale e quindi scalabile per più classi, anche in anni scolastici diversi, questo lavoro può essere svolto collegialmente dai docenti, che individuano anticipatamente degli apparati utili all’interpretazione e all’analisi delle fonti: nel mio caso, il lavoro è stato svolto in itinere.
Altre deviazioni di minore importanza hanno coinvolto piccoli gruppi di alunni, a cui è stato richiesto, in momenti dedicati, di ragionare collettivamente su altri aspetti del laboratorio, come ad esempio la struttura e i colori dei manifesti e la preparazione della presentazione tramite l’apposito programma: in questi casi, a seconda delle necessità, sono stati creati dei micro-compiti specifici, stabiliti anche sulla base degli interessi degli alunni e delle loro scelte rispetto alla scuola superiore e al percorso di orientamento.
Infine, e con questo passiamo al punto successivo, un livello di mediazione considerevole in cui il mio intervento è stato necessario, è stata la produzione degli artefatti previsti dal progetto.
§3.5 Laboratorio sull’archivio storico comunale – Artefatti
Fin dalla sua elaborazione, il Laboratorio sull’archivio storico comunale ha infatti previsto la realizzazione di una mostra e di una presentazione aperta alla cittadinanza. La scelta di un’articolazione conclusiva di questo tipo è motivata dalla necessità di proporre alla classe destinataria del progetto un compito autentico di rielaborazione ed esposizione orale, utile anche in previsione dell’esame di licenza media.
L’allestimento della mostra e la sua presentazione da parte dei ragazzi ha quindi previsto la creazione dei seguenti artefatti: (1) i manifesti contenenti la scansione, l’analisi delle fonti e altri apparati integrativi, (2) la presentazione da proiettare e (3) l’esposizione dei ragazzi alla cittadinanza.
Quindi il coinvolgimento della classe in questa fase del lavoro è stato guidato dall’insegnante, che nell’azione didattica si è basato sui seguenti criteri: innanzitutto il coinvolgimento di tutti gli allievi, nessuno escluso, nella presentazione del laboratorio sll’archivio storico comunale;14 la riflessione condivisa sulla veste grafica migliore per presentare il lavoro, individuato in manifesti in formato A1, in cui confluiscono scansioni delle fonti, elementi della cronologia e il lavoro testuale di analisi e contestualizzazione, organizzati in un layout scalabile e riutilizzabile; la preparazione di una presentazione tramite Slides di Gsuite for Education, contenente la traccia visiva, segmentata con una parte assegnata a ciascun alunno, di quanto la classe presenterà oralmente al momento della condivisione con la cittadinanza.
§4 Laboratorio sull’archivio storico comunale – Ritrovamenti
Tra i vari ritrovamenti frutto del lavoro di archivio, c’è qualche probabilità che i più sorprendenti o interessanti non siano necessariamente quelli che “parlano” agli alunni. Vale la pena di indicare, almeno rapsodicamente, alcuni di questi documenti.
Poiché fino alla Riforma Gentile l’istruzione doveva essere garantita e organizzata dai Comuni, tra i documenti depositati negli archivi storici si potranno trovare verbali degli esami di scuola elementare (con dati relativi ai promossi e ai bocciati nella poco inclusiva scuola della Legge Casati); i dettati d’esame, da cui si evince come la dignitosa povertà degli indigenti non venisse considerata un’ignominia da nascondere; le tracce per la composizione scritta, in cui veniva richiesto ai ragazzi di raccontare l’esperienza di aiuto ad un parente ammalato oppure ad un bisognoso; le relazioni di fine anno di maestre e maestri di inizio Novecento, che potranno lamentare la mancanza di finestre nell’unica aula a disposizione, la fuga primaverile di bambini che abbandonano la scuola per lavorare nei campi oppure l’alcolismo diffuso nelle famiglie contadine.
Rimanendo nell’ambito della scuola e dell’istruzione, in qualche caso fortunato si potrebbero trovare carteggi tra politica e religione. In uno di questi, un parroco di campagna indirizza una lettera al sindaco per lamentare il fatto che nella scuola pubblica non si impartisse l’insegnamento della religione in modo assiduo, diversamente da quanto avveniva in altri paesi europei, opportunamente citati come esempi di virtù pedagogica. Il clima di un certo positivismo primo novecentesco faceva giungere la propria eco anche nei paesi di campagna più periferici.
Nel faldone “Leva e Truppa 1915-1918” si potrebbero trovare i fascicoli dei soldati morti al fronte, ciascuno contenente i telegrammi e le comunicazioni alla famiglia; se compilati integralmente, i frontespizi di questi fascicoli sono utili per un’indagine quantitativa del numero di morti in rapporto agli abitanti del comune, dell’età e della causa della morte.
Fra la corrispondenza diversa risalente al ventennio fascista, può capitare di leggere una spassosa diatriba in cui il podestà locale lamenta al responsabile della sezione provinciale del partito l’aumento sconsiderato del prezzo di un busto del duce che il comune avrebbe dovuto acquistare. Di diverso tenore e rilevanza storica invece è l’indagine interna sul numero di scapoli presenti nell’amministrazione pubblica, di cui c’è traccia in diverse circolari dattiloscritte, così come, negli anni dell’occupazione tedesca durante la Seconda Guerra Mondiale, le richieste di notizie su cittadini di religione ebraica.
§5 Prospettive
Le questioni che mi sono posto a partire dal percorso svolto con i ragazzi nello scorso anno scolastico sono molteplici, e non coinvolgono soltanto la riproducibilità e la scalabilità del progetto, ma soprattutto l’organizzazione scolastica e didattica nel suo complesso all’interno della quale percorsi di questo tipo potrebbero articolarsi ed essere produttivi.
In questo senso, la domanda cruciale da porsi, a mio avviso, è se, nei contesti scolastici che sono andati consolidandosi in questi ultimi anni, sia possibile una proposta con questi obiettivi e queste caratteristiche. In effetti la virata che si sta compiendo verso modelli didattici che tengono assieme un numero alto di ore curricolari, tutte obbligatorie, e la loro contemporanea compressione in un tempo scuola su cinque giorni settimanali risulta deleteria per la proposta di attività di approfondimento e laboratoriali, rendendole pressoché impraticabili. L’esistenza stessa di questo laboratorio di ricerca archivistica, come si può leggere nel progetto iniziale, era infatti vincolato ad una classe terza media con orario settimanale su sei giorni di frequenza per cinque ore al giorno; nei modelli orari in cui la scansione oraria è di sei ore (o poco meno) al giorno settimanali è del tutto evidente l’impossibilità di una sua proposta.
Qui mi sia concesso confutare gli argomenti di tutti coloro che sostengono come, modulando obiettivi e metodologie didattiche in modo accorto, sia possibile fare una proposta di apprendimento articolata su sei ore al giorno. Se ciò è vero – e penso che lo sia, in una certa misura – è lecito anche chiedersi se, paradossalmente, non sia possibile a questo punto anche esaurire le trenta ore di scuola obbligatorie in quattro o persino in tre giorni. È evidente che tutto si può fare, in un modo o nell’altro: ma vale davvero la pena di non pensare alle distorsioni e ai problemi che questo modello impone ai nostri alunni? È una scuola a misura di adolescente quella che viene proposta e organizzata in questo modo? E, a pensarci bene, quale adulto lavora (e parliamo di lavoro, non di apprendimento) per sei ore di fila al giorno con una pausa di un quarto d’ora e una di cinque minuti?
Forse varrebbe la pena di uscire dall’ambiguità, e di dirci almeno tra noi le cose come stanno, e magari provando ad ipotizzare delle soluzioni conseguenti alla tutela del diritto all’apprendimento inclusivo di tutti i ragazzi, il diritto ad una sana e corretta alimentazione, il diritto ad un stile di vita completo ed equilibrato, a garanzia dei veri protagonisti del nostro lavoro, e cioè ragazze e ragazzi in età evolutiva a cui va garantito quando di meglio sia possibile, e non il frutto di un compresso al ribasso tra gli attori in gioco. Radicalizzando questa dinamica, si rischia invece che le disuguaglianze di matrice economica e conseguentemente sociale potrebbero diventare insostenibili, se la scuola italiana non si pone l’obiettivo di un’inclusione non soltanto teorica, ma anche concreta, a partire da precise scelte di carattere organizzativo.
Per affrontare la complessità del problema anche la linearità di qualche proposta concreta potrebbe presentare dei vantaggi. Eccone alcune. Innanzitutto sarebbe necessario proporre una riduzione sostanziale del numero di ore curricolari obbligatorie (da 30 a 24-25 settimanali), per i motivi già indicati; nelle ore curricolari il focus deve essere centrato sulle materie prioritarie (comprensione del testo, lingue straniere, matematica e informatica); le attività di tipo pratico possono essere collocate in orario extracurricolare pomeridiano, quando la scuola garantirà l’apertura dell’istituzione per le più svariate attività di inclusione e supporto ad alunni e famiglie. All’interno di questo quadro, un laboratorio sull’archivio comunale come quello appena descritto (così come altre svariate attività progettuali) può mettere le ragazze e i ragazzi nella condizione di esplorare un territorio complesso e non contingentato nei tempi e nei modi di questa esplorazione, e quindi di fare esperienza di cosa significhi “fare la differenza”.
Note al testo:
1 Anche il concetto di immersività nel campo della didattica sembra essere stato attratto nell’orbita dell’accattivante. Relativamente a questo punto si veda A. Benassi, Didattica immersiva, in «Bricks», 8, 3, pp. 106-111: “In anni recenti, il termine immersivo è diventato di uso comune. O forse sarebbe più corretto dire che è diventato una parola calda, usata – talvolta abusata – in vari ambiti, compreso quello educational, e spesso associata ad un’altra parola: esperienza. Nella percezione comune, un’esperienza immersiva è un’esperienza simulata in una qualche forma di realtà virtuale, abilitata da particolari tecnologie.” L’articolo è pubblicato in PDF al seguente link: http://www.rivistabricks.it/wp-content/uploads/2018/08/2018_3_18_Benassi.pdf. Come chiarisce Benassi nel suo contributo, la caratteristica dell’immersività non necessariamente presuppone il ricorso alla tecnologia come condizione di possibilità: essa infatti ha come correlato fondamentali l’esperienza e la possibilità di interazione tra soggetto e contesto.
2 Per un contributo agile e nel contempo approfondito sulla didattica attraverso gli archivi, corredato da un apparato bibliografico, si veda I. Mattozzi, Archivi simulati e didattica della ricerca storica: per un sistema formativo integrato tra archivi e scuole, in AA.VV., Archivi locali e insegnamenti storici, Archivio Storico Comune di Modena, Modena, 2001, pp. 11-23.
3 C. McCarthy, Non è un paese per vecchi, Einaudi, Torino 2007, pp. 250-251: “Dopo che è morto ho fatto due sogni su di lui. Il primo non me lo ricordo tanto bene, lo incontravo in città da qualche parte e mi regalava dei soldi e mi pare che li perdevo. […] Attraversavo un passo in mezzo alle montagne. Faceva freddo e a terra c’era la neve, lui mi superava col suo cavallo e andava avanti. Senza dire una parola. Continuava a cavalcare, era avvolto in una coperta e teneva la testa bassa, e quando mi passava davanti mi accorgevo che aveva in mano una fiaccola ricavata da un corno, come usava ai vecchi tempi, e io vedevo il corno alla luce della fiamma. Era del colore della luna. E nel sogno sapevo che stava andando avanti per accendere un fuoco da qualche parte in mezzo a tutto quel buio e a tutto quel freddo, e che quando ci sarei arrivato l’avrei trovato ad aspettarmi. E poi mi sono svegliato.”
4 Anche il romanzo La strada, vincitore del Premio Pulitzer per la narrativa nel 2007, che ha come protagonisti un padre e un figlio senza nome che vagano in uno scenario post-apocalittico, non fa eccezione a questa regola: anzi, il padre di La strada ne è forse l’esempio più didascalico che, proprio per questo motivo, trovo meno interessante dal punto di vista letterario rispetto agli altri romanzi di McCarthy. Sulla figura del padre di La strada si vedano i molteplici contributi dello psicoterapeuta e saggista Massimo Recalcati.
5 C. McCarthy, Oltre il confine in Id., Trilogia della frontiera, Einaudi, Torino 2008.
6 Vale la pena di riportare il passo per intero. Cfr. ivi, p. 315: “Il padre posò la prima trappola sotto il valico, dove sapevano che era passata la lupa. Il ragazzo fermò il cavallo e osservò il padre buttare a terra la pelle di vitello col pelo rivolto verso il basso, scendervi sopra e calare il cesto. Estrasse i guanti di renna e se li infilò, scavò una buca con una paletta, mise dentro il gancio, avvolse intorno la catena e ricoprì la buca. Poi ne scavò altre di forma analoga a quella delle molle della trappola. Mentre scavava mise un po’ di terra nel setaccio, poi posò la paletta e prese dal cesto un paio di morsetti, con i quali abbassò le molle fino ad aprire le ganasce. Sollevò la trappola e osservò l’incavo nella base, allentò un po’ la vite e sistemò il meccanismo di chiusura.” Notevole la nuda indicazione del figlio che osserva il padre mentre compie tutte le operazioni descritte.
7 Ivi, pp. 315-316.
8 Ivi, p. 322.
9 G. Deleuze, Marcel Proust e i segni, Einaudi, Torino 2001.
10 Si vedano in particolare i lavori di Vittorio Lodolo D’Oria, che ha dedicato al delicato tema del burn out degli insegnanti molte pubblicazioni.
11 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997.
12 Un esempio di scheda di analisi è contenuta in A. Fossa, G. Nicoletti, E. Peatini, Laboratori per fare storia. Guida pratica alla metodologia della ricerca storico-didattica, Canova, Treviso 2005, p. 132.
13 Un’ipotesi di lavoro ancora diversa da tenere presente, intermedia tra l’approccio immersivo e l’analisi di documenti selezionati a monte dal docente, consiste nell’allestimento di uno pseudo-archivio, in cui la selezione dei materiali documentari viene affiancata dal mantenimento di fonti meno interessanti, in proporzione possibilmente analoga a quanto contenuto nei faldoni originali. Cfr. I. Mattozzi, op. cit.
14 Questo aspetto viene spesso, ingiustamente, sottovalutato: mi è capitato più volte nella mia esperienza di spettatore, e purtroppo in qualche caso anche di promotore, di assistere o ad organizzare attività di esposizione al pubblico in cui sono stati coinvolti soltanto alcuni alunni, magari i più competenti, trascurando così tutti i partecipanti, anche coloro il cui contributo è stato meno appariscente.