Deleuze e Ejzenstejn
Coloro che per primi fecero e pensarono il cinema partivano da un’idea semplice: il cinema come arte industriale giunge all’auto-movimento, il movimento automatico, fa del movimento il dato immediato dell’immagine. Un movimento di questo tipo non dipende più da un mobile o da un oggetto che io eseguirebbe, né da una mente che lo ricostruirebbe. È l’immagine che muove se stessa in se stessa. In questo senso non è dunque né figurativa, né astratta. Si dirà che questo era già vero per tutte le immagini artistiche; Ejzenstejn infatti continua a analizzare i quadri dì Leonardo da Vinci, del Greco, come fossero immagini cinematografiche […]. Ma le immagini pittoriche non sono per questo meno immobili in sé, sicché è la mente che deve “fare” il movimento. E le immagini coreografiche o drammatiche restano legate a un mobile. Solo quando il movimento diventa automatico, l’essenza artistica dell’immagine si attua: produrre uno choc sul pensiero, comunicare alla corteccia delle vibrazioni, toccare direttamente il sistema nervoso e cerebrale. “Facendo” il movimento e facendo quel che le altre arti si accontentano di esigere (o di dire), l’immagine cinematografica raccoglie l’essenziale delle altre arti, ne è l’erede, è quasi il modo d’impiego delle altre immagini, converte in potenza quel che era soltanto possibilità. Il movimento automatico suscita in noi un automa spirituale, che a sua volta reagisce su di lui. L’automa spirituale non designa più, come nella filosofia classica, la possibilità logica o astratta di dedurre formalmente i pensieri gli uni dagli altri, ma il circuito nel quale essi entrano con l’immagine-movimento, la potenza comune di ciò che costringe a pensare e di ciò che pensa sotto choc: un noochoc. Heidegger dirà: “L’uomo è in grado di pensare nella misura in cui ne ha la possibilità. Solo che questa possibilità non ci garantisce ancora che ne siamo capaci”. Comunicandoci lo choc, il cinema pretende di darci questa capacità, questa potenza, e non la semplice possibilità logica. Tutto avviene come se il cinema ci dicesse: con me, con l’immagine-movimento, non potete più sfuggire allo choc che risveglia in voi il pensatore. Un automa soggettivo e collettivo per un movimento automatico: l’arte delle “masse”. Si sa che se un’arte avesse imposto necessariamente lo choc o la vibrazione, il mondo sarebbe da lungo tempo cambiato e gli uomini penserebbero da lungo tempo. Perciò questa pretesa del cinema, almeno nei suoi più grandi pionieri, oggi fa sorridere. Credevano che il cinema fosse capace di imporre lo choc e di imporlo alle masse, al popolo (Vertov, Ejsenstejn, Gance, Elie Faure…). Tuttavia intuivano che il cinema avrebbe incontrato, incontrava già, tutte le ambiguità delle altre arti, si sarebbe rivestito di astrazioni sperimentali, “buffonate formaliste”, e di rappresentazioni commerciali, di sesso o di sangue. Lo choc stava per confondersi, nel brutto cinema, con la violenza figurativa del rappresentato, invece di giungere, sviluppando le proprie vibrazioni in una sequenza mobile che si sprofonda in noi, a quest’altra violenza di un’immagine-movimento. Peggio ancora, l’automa spirituale rischiava di diventare il fantoccio di tutte le propagande, l’arte delle masse mostrava già un volto inquietante. La potenza o la capacità del cinema rivelava allora, a sua volta, di essere soltanto una pura e semplice possibilità logica. Per lo meno il possibile vi assumeva una nuova forma, anche se il popolo era ancora assente, anche se il pensiero doveva ancora giungere. Qualcosa era in gioco, in una concezione sublime del cinema. Quel che infatti costituisce il sublime è il fatto che l’immaginazione subisce uno choc che la spinge al proprio limite e forza il pensiero a pensare il tutto come totalità intellettuale che oltrepassa l’immaginazione.

Gilles Deleuze, L’immagine tempo.
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