Una mattina, durante una delle sue passeggiate d’erborista, una circostanza insignificante e quasi grottesca lo fece riflettere; essa ebbe su di lui un effetto paragonabile a quello d’una rivelazione che illumini un devoto su qualche santo mistero. Era uscito dalla città all’alba per recarsi dove cominciano le dune, portando con sé una lente che aveva fatta costruire dietro sue precise indicazioni da un occhialaio di Bruges e che gli serviva ad esaminare da vicino le radicette e i semi delle piante raccolte. Verso mezzogiorno si addormentò coricato ventre a terra in una buca della sabbia, colla testa sul braccio; la lente cadutagli di mano giaceva sotto di lui su un cespuglio secco. Al risveglio credette di scorgere sul proprio viso una bestia straordinariamente mobile, insetto o mollusco che si muoveva nell’ombra. Era di forma sferica; la parte centrale d’un nero brillante e umido, circondata da una zona bianca piuttosto opaca o tendente al rosa; una frangia di peli sui contorni spuntava da una corazza molle e bruna, striata da screpolature e ammaccata di enfiagioni. Una vitalità quasi spaventosa animava quella cosa fragile. In un attimo, prima ancora che la sua visione potesse formularsi in pensiero, riconobbe in ciò che vedeva il proprio occhio riflesso e ingrandito dalla lente, dietro a cui l’erba e la sabbia formavano un foglio di stagno come quello d’uno specchio. Si rialzò tutto assorto. Si era colto nell’atto del vedere; sfuggito alla banalità delle prospettive abituali, aveva guardato dappresso l’organo piccolo ed enorme, vicino benché estraneo, vivo ma vulnerabile, dotato d’una potenza imperfetta eppur prodigiosa, da cui dipendeva per vedere l’universo. Non c’era nulla di teorico da trarre da questa visione che stranamente accrebbe la conoscenza che aveva di sé come pure la nozione dei molteplici oggetti che compongono questo sé. Come l’occhio di Dio in certe stampe, quell’occhio umano diveniva un simbolo. L’importante era di raccogliere il poco che sarebbe filtrato dal mondo prima della notte, di controllarne la testimonianza e, possibilmente, di correggerne gli errori. In un certo senso, l’occhio contraddiceva l’abisso.
Marguerite Yourcenar, L’opera al nero, Feltrinelli, Milano 1969, pp. 185-186